Corte di Cassazione, Sezione II, Sentenza del 12 febbraio 2010, n. 3438 – Pres. Rovelli; Rel. Oddo; P.M. Russo
Proprietà – Limitazioni legali della proprietà – Rapporti di vicinato – Immissioni – In genere – Normale tollerabilità – Valutazione – Criteri – Superamento della normale tollerabilità e individuazione dei rimedi – Apprezzamento del giudice di merito
Il limite di tollerabilità delle immissioni non ha carattere assoluto ma é relativo alla situazione ambientale, variabile da luogo a luogo, secondo le caratteristiche della zona e le abitudini degli abitanti; spetta, pertanto, al giudice di merito accertare in concreto il superamento della normale tollerabilità e individuare gli accorgimenti idonei a ricondurre le immissioni nell’ambito della stessa. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza della Corte di merito che aveva ritenuto non tollerabili le immissioni acustiche prodotte dal funzionamento di un’autoclave e di un bruciatore, tenuto conto degli elevati livelli dei valori sonori, accertati strumentalmente, della situazione dei luoghi, trattandosi di edificio ubicato in comune montano, del funzionamento dei detti impianti per molti mesi dell’anno ed anche in ore notturne, della collocazione degli stessi in un locale a stretto contatto con la camera da letto degli attori e della necessità di questi, data la loro avanzata età, di godere di tranquillità e riposo ed aveva, altresì, disposto l’adozione degli accorgimenti suggeriti dal c.t.u.). (Rigetta, App. L’Aquila, 30/07/2003).
Svolgimento del processo
Con atto notificato l’I giugno 1985, E. ed P.O., premesso di essere proprietari di un’unità immobiliare nell’edificio condominiale alla via (OMISSIS) e che P. C., proprietario di altra unità immobiliare, aveva installato in un suo locale un bruciatore ed un’autoclave, i quali producevano durante il loro funzionamento rumori intollerabili, ed aveva collocato alcune tubature e realizzato una canna fumaria in violazione delle distanze legali, convennero il P. davanti al Tribunale di Avezzano e ne domandarono la condanna alla cessazione delle immissioni, alla rimozione dei tubi e della canna fumaria ed al risarcimento dei danni. P.C. si costituì chiedendo il rigetto delle domande ed il Tribunale con sentenza del 10 novembre 1993 condannò il convenuto alla rimozione del bruciatore, dell’autoclave, della canna fumaria e della parte del tubo dell’acqua incassata nel muro degli attori.
La decisione, gravata dal soccombente, venne parzialmente riformata il 30 luglio 2003 dalla Corte di appello dell’Aquila, che rigettò la domanda degli attori di rimozione del tubo dell’acqua e condannò P.C. a ridurre i rumori provocati dal bruciatore e dall’autoclave mediante l’adozione degli accorgimenti suggeriti dal c.t.u.. Osservarono i giudici di secondo grado, per quello che ancora interessa, che la canna fumaria alterava negativamente il decoro architettonico dell’edificio e che i livelli fonometrici, la situazione ambienta le e l’installazione del bruciatore e dell’autoclave in un locale a contatto con la camera da letto degli attori rendevano da essi non tollerabili i rumori prodotti dal funzionamento degli impianti. Successivamente la decisione venne corretta con ordinanza dell’11 giugno 2004 mediante inserzione nel suo dispositivo “della statuizione: conferma intanto (pur con diversità di motivazione) la sentenza appellata nella condanna del P.C. alla rimozione della canna fumaria”.
C.D. è ricorso con quattro motivi per la cassazione della sentenza ed P.O., nonché M.E., P. M.N. e P.G., quali eredi del defunto P.E., hanno resistito con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memorie.
Con il primo motivo, il ricorso denuncia la nullità della sentenza impugnata nella parte corretta, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, per violazione o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., con riferimento all’art. 384 c.p.c., comma 2, in quanto l’omessa pronuncia sull’appello avverso la condanna alla rimozione della canna fumaria era stata emendata con la procedura dettata dall’art. 287 c.p.c. e segg., per la sola correzione di omissioni e di errori materiali, e la condanna era stata ribadita con riferimento ad una causa petendi diversa da quella di violazione delle distanze legali dedotta dagli attori e mediante una modifica della motivazione della pronuncia di primo grado non consentita al giudice del gravame. Il motivo è in parte inammissibile ed in altra infondato. I giudici di secondo grado, premesso che l’appoggio della canna fumaria alla facciata del fabbricato integrava un uso consentito della cosa comune, hanno rimarcato che gli attori, oltre alla questione della violazione delle distanze legali, avevano sollevato in primo grado” (cfr. il punto 2 dell’atto di citazione ed il punto 3/A della comparsa conclusionale)”, e riproposto in grado di appello, anche quella dell’alterazione del decoro architettonico dell’edificio condominiale ed hanno concluso che per questa diversa ragione (e non già per la correzione di un errore di diritto) la condanna alla rimozione del manufatto contenuta nella decisione del Tribunale doveva essere confermata.
L’ulteriore specificazione nel dispositivo della riforma solo parziale delle statuizioni di primo grado e l’enunciazione in esso delle parti riformate escludevano, inoltre, anche sul piano formale la ravvisabilità di una omessa pronuncia sull’appello avverso la condanna alla rimozione della canna fumaria e costituisce una valutazione del giudice di merito non sindacabile in sede di legittimità l’apprezzamento di una divergenza tra il contenuto della pronuncia e la sua espressione letterale e dell’interesse di una delle parti alla sua emenda. Nel resto, va osservato che, anche quando è denunciato un error in procedendo, rispetto al quale la Corte di Cassazione è giudice anche del fatto, il principio di autosufficienza del ricorso impone che nella impugnazione siano indicati con precisione gli elementi di fatto necessari al controllo della decisività dei vizi dedotti, ed a tale onere il motivo non ha soddisfatto limitandosi ad affermare che gli attori avevano posto a fondamento della loro domanda esclusivamente la violazione delle distanze legali, giacché alla genericità dell’affermazione si contrappone l’accertamento della sentenza, documentato dal riferimento al contenuto di specifici atti, che tanto in primo grado, quando in appello, essi avevano altresì denunciato la concorrente alterazione del decoro architettonico dell’edificio.
Con il secondo motivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, per violazione degli artt. 844 e 1120 c.c. ed insufficiente ed omessa motivazione circa un punto decisivo, avendo ritenuto che la presenza della canna fumaria si rifletteva negativamente sull’aspetto dello stabile, benché l’aspetto architettonico degli edifici assuma rilievo, a norma dell’art. 1127 c.c., con esclusivo riferimento alla loro sopraelevazione, e senza indicare le ragioni per le quali l’installazione della canna fumaria su una parete del cortile condominiale potesse violare il decoro architettonico del fabbricato.
Il motivo è infondato.
Il vizio di omessa o insufficiente motivazione, deducibile in sede di legittimità ex art. 360 c.p.c., n. 5, sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito, al quale è rimesso l’accertamento dei fatti ed il loro discrezionale apprezzamento, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia. Nella specie, la sentenza impugnata, correttamente richiamati i limiti che l’art. 1120 c.c. pone alle modifiche non assentite della cosa comune, ha ritenuto innegabilmente ed eloquentemente dimostrato dalle fotografie allegate alla c.t.u. che il modesto decoro della facciata dell’edificio era stato alterato in modo non trascurabile ed economicamente apprezzabile dal notevole ingombro della canna fumaria e dal non gradevole impatto visivo determinato dal suo aggetto e dai materiale impiegati per la sua costruzione.
Nessuna carenza argomentativa è ravvisabile in tale conclusione, tratta da una visione diretta delle immagini acquisite, avendo il giudice dato adeguato conto anche della collocazione della canna fumaria sulla facciata dell’edificio, e nessuna commistione essa denuncia tra le nozioni di decoro e di aspetto architettonico, alle quali fanno riferimento, rispettivamente, gli artt. 1120 e 1127 c.c.;
né, infine, sulla correttezza della motivazione può assumere rilievo la prospettazione di un erroneo apprezzamento degli elementi esaminati non essendo attribuito al giudice di legittimità il potere di riesaminare e valutare il merito della causa.
Con il terzo motivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, per insufficiente ed omessa motivazione circa un punto controverso, avendo ritenuto valide e condivisibili le conclusioni del c.t.u. nominato in primo grado sul superamento della soglia di normale tollerabilità, nonostante, nonostante il consulente avesse ammesso che la misurazione dei rumori era stata influenzata da elementi esterni, ed avendo aderito acriticamente a quelle del c.t.u. nominato in secondo grado, il quale, pur riconoscendo che gli interventi nelle more operati dal convenuto avevano comportato una buona diminuzione del livello sonoro nei locali interessati, aveva escluso senza l’utilizzo di alcun mezzo strumentale che i rumori fossero stati ricondotti nel limite della normale tollerabilità.
Il motivo è infondato.
La sentenza ha esaminato le censure, con le quali il convenuto aveva lamentato in appello che le conclusioni del c.t.u. sulla non tollerabilità delle immissioni acustiche, condivise dalla decisione di primo grado, erano inficiate da gravi errori perché non avevano adeguatamente tenuto conto della rumorosità di fondo e del rumore residuo ed i rilievi fonometrici erano stati effettuati solo in tempo notturno ed in presenza di elementi di disturbo esterni, e che gli attori avevano domandato, alternativamente alla rimozione degli impianti fonti dei rumori, la riduzione delle immissioni nei limiti della tollerabilità. Ha escluso la fondatezza della prima, evidenziando non solo gli elevati livelli dei valori sonori accertati strumentalmente, ma anche, e soprattutto, la situazione dei luoghi (essendo l’edificio ubicato in un comune montano), il funzionamento degli impianti per molti mesi dell’anno ed anche in ore notturne, la collocazione di essi in un locale a contatto con la camera da letto degli attori e la loro necessità per l’età avanzata di godere di tranquillità e riposo.
Ha accolto la seconda e, avendo il c.t.u., escluso l’idoneità dei rimedi già adottati dal convenuto ad abbattere adeguatamente il rumore, ha disposto l’adozione degli accorgimenti suggeriti dal medesimo c.t.u..
Orbene, questa Corte ha ripetutamente affermato il principio che, non avendo il limite di tollerabilità delle immissioni rumorose carattere assoluto, ma essendo esso relativo alla situazione ambientale, variabile da luogo a luogo, secondo le caratteristiche della zona e le abitudini degli abitanti, spetta al giudice del merito sia accertare in concreto il superamento della normale tollerabilità e l’individuazione degli accorgimenti idonei a ricondurre le immissioni nell’ambito della normale tollerabilità.
La motivazione della sentenza non è conseguentemente di per sé inficiata, nella parte in cui ha confermato l’originaria intollerabilità delle immissioni acustiche, facendo riferimento oltre che agli elevati valori fonometrici rilevati, anche alla particolarità dei luoghi nei quali il rumore era prodotto e si propagava ed alle persone che ne erano colpite, dal solo richiamo ad errori od all’inadeguatezza della rilevazione strumentale, e neppure, nella parte in cui ha aderito alla esclusione da parte del c.t.u., dell’idoneità degli accorgimenti già adottati per abbatterlo, dall’assenza di rilievi strumentali, dovendo la denuncia di un vizio omissione od insufficienza della stessa attingere, sia pure al fine di negarne la significatività, tutti gli elementi esaminati dal giudice e posti a fondamento della decisione. All’inammissibilità od infondatezza dei motivi seguono il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, liquidate in dispositivo.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, che liquida in Euro 1.600,00, di cui Euro 200,00 per spese vive, oltre spese generali, iva, cpa ed altri accessori di legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 2 dicembre 2009.
Depositato in Cancelleria il 12 febbraio 2010