Cassazione civile , sez. II, sentenza 05.11.2010 n° 22596
Il condomino che esegue opere di ristrutturazione della propria unità immobiliare, non vietate e comunque legittime, senza la preventiva autorizzazione dell’amministratore, così come espressamente previsto nel regolamento condominiale contrattuale, viola una norma di natura procedimentale, con la conseguenza che il condominio (o il singolo condominio) può chiedere solamente il risarcimento del danno subito per la violazione del regolamento e non anche la rimessione in pristino dello stato dei luoghi.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TRIOLA Roberto Michele – Presidente
Dott. MAZZIOTTI DI CELSO Lucio – rel. Consigliere
Dott. GOLDONI Umberto – Consigliere
Dott. BURSESE Gaetano Antonio – Consigliere
Dott. DE CHIARA Carlo – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 9148/2005 proposto da:
B.O. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA G. PISANELLI 2, presso lo studio dell’avvocato CIUTI DANIELE, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati BARILLARI SERGIO, PROFETA LORENZO;
– ricorrente –
contro
C.C. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA VITTORIA COLONNA 32, presso lo studio dell’avvocato MENGHINI MARIO, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati GALLONE LUIGI, GILARDINI EMPRIN FRANCESCO;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 368/2005 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 07/03/2005;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 05/10/2010 dal Consigliere Dott. MAZZIOTTI DI CELSO Lucio;
udito l’Avvocato CIUTI Daniele, difensore della ricorrente che ha chiesto accoglimento del ricorso;
udito l’Avvocato MENGHINI Mario, difensore della resistente che ha chiesto rigetto del ricorso;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SCARDACCIONE Eduardo Vittorio che ha concluso per rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
B.O. conveniva in giudizio C.C. e, premesso di essere proprietaria di un appartamento, compreso nello stabile condominiale sito in (OMISSIS), in parte sottostante alle soffitte n. 8-9-10 e 11 di proprietà della C., assumeva che quest’ultima aveva eseguito lavori di ristrutturazione per la completa destinazione abitativa di tali locali, ed aveva altresì incorporato durante i lavori suddetti una parte del corridoio condominiale; chiedeva quindi accertarsi la illegittimità di tale incorporazione e la condanna della C. alla rimessione in pristino ed al risarcimento di danni subiti.
Si costituiva in giudizio la convenuta chiedendo il rigetto delle domande attrici e svolgendo in via riconvenzionale domanda con la quale chiedeva dichiararsi l’acquisto in suo favore del corridoio in questione per usucapione.
L’adito Tribunale di Torino con sentenza del 18.3.1999 dichiarava illegittima l’incorporazione del corridoio e condannava la C. alla rimozione della porzione di corridoio occupata ed al ripristino dello stato dei luoghi risultante dall’atto pubblico di compravendita e dal relativo regolamento condominiale.
Proposta impugnazione avverso tale decisione da parte della C. cui resisteva la B., la Corte di Appello di Torino con sentenza del 9.3.2000, in parziale accoglimento dell’appello, compensava il 10% delle spese processuali del primo grado di giudizio, poneva la residua quota del 90% delle stesse a carico dell’appellante e confermava nel resto.
La Corte territoriale rilevava, sulla base degli atti di compravendita delle soffitte di proprietà della C., del regolamento condominiale e della relativa planimetria richiamati nei detti atti di acquisto, l’esistenza di un corridoio comune coerente con le soffitte medesime; riteneva poi inammissibile la prova per testi dedotta dall’appellante e finalizzata ad integrare l’oggetto dei contratti suddetti poichè si trattava di atti di compravendita di immobili per i quali era richiesta la forma scritta “ad substantiam” ed anche perchè la prova era diretta a dimostrare un fatto aggiunto o contrario al contenuto degli atti.
Il giudice di appello riteneva altresì infondata la domanda subordinata della C. relativa alla declaratoria di proprietà in proprio favore del corridoio comune per usucapione, sia perchè non era credibile che nel 1973 lo stato dei luoghi fosse diverso da quello descritto nell’atto di compravendita rogito Chiggia del 17.12.1973, sia perchè l’esistenza di un atto pubblico che escludeva la proprietà del corridoio comportava l’insussistenza dell’elemento soggettivo idoneo all’acquisto per usucapione della proprietà del medesimo.
Avverso tale sentenza la C. proponeva ricorso per cassazione basato su due motivi al quale la B. resisteva con controricorso.
Con sentenza n. 10.700 del 2003 questa Corte, in accoglimento del primo motivo di ricorso, cassava la sentenza impugnata e rinviava ad altra sezione della corte di appello di Torino affermando: che nell’atto di appello la C. aveva invocato il superamento della presunzione di comunione del corridoio di accesso alle soffitte di sua proprietà anche sulla base di una sua destinazione oggettiva e permanente a servizio di una porzione immobiliare di proprietà esclusiva di un solo condominio; che l’area suddetta, secondo tale assunto, per ubicazione e struttura veniva utilizzata soltanto dagli acquirenti delle suddette soffitte, unici detentori della chiave della porta d’accesso che conduceva al corridoio medesimo; che la sentenza impugnata aveva ritenuto tale area compresa tra le parti comuni dell’edificio condominiale sulla base dell’esame dei titoli d’acquisto delle soffitte di proprietà della C., del regolamento di condominio e della planimetria allegata, trascurando peraltro del tutto l’indagine sulla destinazione effettiva del corridoio in questione con riferimento alle deduzioni ed alle richiamate allegazioni dell’appellante, e non svolgendo quindi in proposito alcuna valutazione; che tale carenza assumeva rilievo decisivo alla luce dell’orientamento giurisprudenziale consolidato secondo cui la presunzione di cui all’art. 1117 c.c. postula la destinazione delle cose elencate in tale norma al godimento od al servizio del condominio, mentre viene meno allorchè si tratti di un bene dotato di propria autonomia ed indipendenza e pertanto non legato da una destinazione di servizio rispetto all’edificio condominiale in quanto la destinazione particolare vince la presunzione legale di comunione alla stessa stregua di un titolo contrario.
La B. riassumeva il giudizio chiedendo la conferma della sentenza di primo grado appellata dalla C. la quale si costituiva nel giudizio di rinvio chiedendo, in riforma della pronuncia del tribunale, il rigetto della domanda dell’attrice.
Con sentenza 7/3/2005 la corte di appello di Torino, pronunciando in sede di rinvio, in accoglimento dell’appello proposto dalla C. e in riforma dell’impugnata decisione del tribunale, rigettava le domande proposte dalla B.. La corte di merito, per quel che ancora rileva in questa sede, osservava: che, come affermato nella sentenza di annullamento, la presunzione di comunione poteva essere vinta dalla oggettiva inesistenza della destinazione di una parte dell’edificio all’uso comune in assenza di una diversa volontà esplicitata nell’atto costitutivo del condominio o di un titolo contrario (negozio giuridico o usucapione); che nella specie la parte appellante aveva dimostrato l’inesistenza di un corridoio comune coerente con le soffitte; che tale area di disimpegno aveva sempre fatto corpo con le soffitte formando un unico ambiente indiviso sottratto ad una possibile concreta utilità per le parti comuni dello stabile; che tale accertamento, alla luce del principio di diritto da applicare alla controversia secondo quanto affermato nella sentenza di annullamento, conduceva al rigetto della domanda proposta dall’attrice B.; che quest’ultima aveva anche sostenuto l’illegittimità del comportamento della C., a prescindere dalla comunione o meno dell’area in questione, tenuto conto della disposizione dettata dall’art. 25 del regolamento condominiale contrattuale contenente l’obbligo del permesso dell’amministratore per ogni variante allo stato dell’immobile; che era infondato anche tale alternativo fondamento della pretesa della B.; che, infatti, dalla violazione della richiesta di autorizzazione all’amministratore a procedere a modifiche della propria porzione esclusiva dell’immobile non conseguiva il diritto del condominio (o, per esso, del singolo condomino) a veder ripristinata la situazione quo ante in difetto di intrinseca illegittimità della imputazione praticata potendo derivare solo il diritto al risarcimento del danno; che tale prospettiva era nella specie inesistente e non era stata comunque dedotta; che il citato permesso doveva oltretutto essere rilasciato dall’amministratore e non dall’assemblea il che evidenziava che non si verteva in tema di diritti soggettivi all’esecuzione, ma solo di una norma procedimentale destinata a regolare l’armonico contemperamento delle facoltà di godimento dei condomini dello stabile; che inoltre l’amministratore, una volta informato al pari dell’assemblea, non aveva ritenuto di proporre alcuna reazione; che addirittura l’assemblea condominiale, con la Delib. 29 settembre 1995, aveva ratificato lo stato di fatto conseguente ai lavori in questione approvando la creazione di nuove tabelle millesimali ai fini della contribuzione delle spese da parte dei proprietari del piano sottotetto che avevano trasformato le soffitte in abitazioni; che peraltro le conclusioni di merito rassegnate da parte appellata in primo grado ed accolte dal tribunale presupponevano necessariamente la natura comune dell’area incorporata in questione.
La cassazione della sentenza pronunciata in sede di rinvio dalla corte di appello di Torino è stata chiesta da B.O. con ricorso affidato ad un solo motivo illustrato da memoria.
C.C. ha resistito con controricorso.
Motivi della decisione
Con l’unico articolato e complesso motivo di ricorso la B. denuncia violazione degli artt. 1362, 1367, 2933, 1107, 1218 e 2058 c.c., con riferimento all’art. 25 reg. cond., nonchè vizi di motivazione. Deduce la ricorrente che – al contrario di quanto ritenuto dalla corte di appello – il coordinamento tra l’art. 25 e l’art. 6 del reg. cond. va inteso nel senso che i lavori di cui all’articolo 6 sono vietati a prescindere dal consenso o meno dell’amministratore, mentre per i lavori di cui all’art. 25 è richiesto detto consenso dell’amministratore. Nella specie la C. non ha mai chiesto tale preventivo ed obbligatorio consenso per cui ha eseguito i lavori in questione illegittimamente contro la volontà condominiale: da ciò la conseguente distruzione di quanto realizzato con i detti lavori atteso che la proposta domanda di ripristino è una richiesta di risarcimento in forma specifica. E’ evidente la violazione dei canoni di ermeneutica non sussistendo la distinzione operata dalla corte di appello tra autorizzazione da rilasciarsi dall’assemblea e autorizzazione dell’amministratore prevista quest’ultima da una norma “procedimentale” mirante solo a contemperare comportamenti tra condomini. La corte di appello non ha tenuto conto che la clausola regolamentare stabilisce il principio della immodificabilità anche parziale del fabbricato senza il consenso dell’amministratore.
L’approvazione di tabelle millesimali nuove non può poi significare accettazione delle opere realizzate dalla C. e riconoscimento della proprietà esclusiva anche della parte incorporata: al riguardo la sentenza impugnata ha travisato il contenuto del verbale dell’assemblea condominiale del 29/9/1995, con la quale non è stata deliberata alcuna modifica alle tabelle millesimali. Non è poi pertinente la distinzione operata dalla corte di appello tra clausole di semplice regolamentazione comportamentale e clausole limitative dei diritti dei singoli. E’ infine errata anche l’affermazione secondo cui essa B. avrebbe avuto diritto al risarcimento monetario del danno e non al ripristino: la scelta del risarcimento del danno in forma specifica può concorrere con quella del risarcimento per equivalente.
La Corte rileva l’infondatezza e, in parte, l’inammissibilità delle dette numerose censure che si risolvono essenzialmente nella pretesa di contrastare il risultato dell’attività svolta dalla corte di appello in ordine all’interpretazione dell’art. 25 del regolamento contrattuale condominiale in questione.
Innanzitutto va ribadito il principio pacifico nella giurisprudenza di legittimità secondo cui l’interpretazione di un regolamento contrattuale di condominio da parte del giudice di merito è insindacabile in sede di legittimità, quando non riveli violazione dei canoni di ermeneutica oppure vizi logici per mancanza, insufficienza o contraddittorietà della motivazione. Il ricorrente per cassazione che denunci un vizio di motivazione della sentenza sotto il profilo dell’omesso ed errato esame di una disposizione del regolamento di condominio pertanto deve precisare specificamente nel ricorso, non solo il contenuto de regolamento, almeno nelle parti salienti, ma anche, sia pure in maniera sintetica, quali regole di ermeneutica sono state violate, al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività del preteso errore (tra le ultime sentenza 18/9/2009 n. 20237).
Ove, poi, la censura, a prescindere dal rispetto dei canoni ermeneutici, riguardi anche il vizio di motivazione, nel quale il Giudice sarebbe incorso, essa deve investire l’obiettiva deficienza o la contraddizione del ragionamento su cui si fonda l’interpretazione accolta, poichè il sindacato di legittimità può riguardare unicamente la coerenza formale della motivazione, ovvero la coerenza logica dei vari passaggi che ne costituiscono la struttura argomentativa. In definitiva non è ammissibile che le due censure si risolvano in una critica del risultato interpretativo raggiunto dal Giudice mediante la mera contrapposizione ad esso di una differente interpretazione. D’altronde, per sottrarsi al sindacato di legittimità, sotto entrambi i cennati profili, l’interpretazione data dal Giudice di merito non deve essere l’unica possibile, o la migliore in astratto, ma una tra quelle possibili e plausibili, sicchè, quando sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito alla parte che aveva sostenuto la versione poi disattesa dal Giudice di merito – dolersi in sede di legittimità del fatto che sia stata privilegiata l’altra (Cass. civ. 02/05/2006, n. 10131), laddove l’opzione esegetica prescelta dal Giudice di merito sia sorretta da idonea e logica motivazione.
Ritiene il Collegio che la Corte d’appello, nell’interpretare l’art. 25 del regolamento di condominio in questione, non sia incorsa nei denunciati vizi di violazione di legge e di motivazione.
La corte di appello – come sopra riportato nella parte narrativa che precede – ha proceduto ad una attenta analisi del disposto di cui all’art. 25 del regolamento condominiale contrattuale in questione coordinando tale disposto con quello di cui all’art. 6, lett. “d”.
All’esito di tale analisi il giudice di appello è coerentemente giunto alla conclusione che dalla omessa richiesta di preventiva autorizzazione dell’amministratore (e non dell’assemblea condominiale) per l’esecuzione di variante allo stato dell’immobile di proprietà esclusiva del singolo condomino deriva – nel caso di opere non vietate e comunque legittime – non la rimozione dell’opera realizzata ed il ripristino della situazione precedente, bensì solo eventualmente il diritto (del condominio o, per esso, del singolo condomino) al risarcimento del danno per il pregiudizio derivante dalla violazione di una “norma procedimentale” volta a disciplinare in modo armonico le facoltà di godimento spettanti ai singoli condomini con riferimento alla proprietà esclusiva di ciascuno.
La corte di merito ha poi rilevato – come argomento meramente rafforzativo di un convincimento già raggiunto – che, comunque, sia l’amministratore che l’assemblea condominiale, con il loro comportamento, avevano in sostanza preso atto delle modifiche apportate dalla C. nell’immobile di proprietà esclusiva senza sollevare al riguardo alcuna obiezione o contestazione.
Il procedimento logico-giuridico sviluppato nell’impugnata decisione è ineccepibile, in quanto coerente e razionale, ed il giudizio di fatto in cui si è concretato il risultato dell’interpretazione della norma regolamentare in questione è fondato su un’indagine condotta nel rispetto dei comuni canoni di ermeneutica e sorretto da motivazione, adeguata ed immune dai vizi denunciati.
Il giudice di secondo grado ha quindi svolto coerentemente il compito interpretativo affidatogli indicando minuziosamente le ragioni che gli hanno consentito di pervenire alle riportate conclusioni.
Le argomentazioni al riguardo svolte nell’impugnata decisione sono esaurienti, logicamente connesse tra di loro e tali da consentire il controllo del processo intellettivo che ha condotto alla indicata conclusione.
Il giudice di appello ha quindi dato conto delle proprie valutazioni esponendo le ragioni del suo convincimento: alle dette valutazioni la ricorrente contrappone le proprie, ma della maggiore o minore attendibilità di queste rispetto a quelle compiute dal giudice del merito non è certo consentito discutere in questa sede di legittimità.
Nella sentenza impugnata sono evidenziati i punti salienti della decisione e risulta chiaramente individuabile la “ratio decidendi” adottata. A fronte delle coerenti argomentazioni poste a base della conclusione cui è pervenuto il giudice di appello, è evidente che le censure in proposito mosse dalla ricorrente devono ritenersi rivolte non alla base del convincimento del giudice, ma inammissibilmente, al convincimento stesso e, cioè, all’interpretazione delle norme del regolamento in questione; la B. contrappone all’interpretazione ritenuta dalla corte di merito la propria interpretazione investendo essenzialmente il “risultato” interpretativo raggiunto, il che e inammissibile in questa sede.
Va aggiunto che, pur denunciando violazione e falsa applicazione dei canoni d’interpretazione del contratto, la ricorrente non specifica quali canoni siano stati in concreto violati e, soprattutto, il punto ed il modo in cui la corte di appello si sia da quei canoni discostato.
Come già rilevato, ove il ricorso per cassazione denunci errori di diritto o vizi di ragionamento nell’interpretazione di un atto negoziale (nella fattispecie regolamento condominiale), non è sufficiente l’astratto riferimento alle regole di cui agli artt. 1362 seg. c.c., necessitando, invece, la specificazione dei canoni ermeneutici in concreto violati e del punto e del modo in cui il giudice di merito si sia da quei canoni discostato, giacchè, altrimenti, la critica della ricostruzione della volontà contrattuale operata dal giudice, e la proposta di una diversa interpretazione, costituiscono una censura inammissibile.
E’appena il caso di rilevare, infine, l’inammissibilità della censura con la quale la ricorrente sostiene che la corte di appello non ha tenuto conto del principio secondo cui il risarcimento monetario ben può concorrere con il risarcimento per equivalente ex art. 2058 c.c., comma 2.
Il proposito va evidenziato che la corte di appello ha affermato che la prospettiva del risarcimento del danno non era stata mai dedotta e che detto risarcimento non era stato mai richiesto dalla C..
La detta affermazione non ha formato oggetto di censura da parte della ricorrente.
In definitiva il ricorso deve essere rigettato con la conseguente condanna della soccombente ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione liquidate nella misura indicata in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione che liquida in complessivi Euro 200,00, oltre Euro 2.000,00 a titolo di onorari ed oltre accessori come per legge.