CONDOMINIO – APERTURA DI VEDUTE SUL CORTILE COMUNE – LEGITTIMITA’ – FONDAMENTO
Cassazione civile , sez. II, 09 giugno 2010 , n. 13874
L’apertura di luci e vedute sul cortile condominiale, considerata la precipua funzione di questa parte comune, che è appunto quella di dare luce ed aria alle unità immobiliari di proprietà esclusiva, rappresenta un uso lecito della cosa comune ai sensi dell’art. 1102 c.c. senza che nella fattispecie possano invocarsi le limitazioni prescritte, in tema di luci e vedute, a tutela dei proprietari dei fondi confinanti di proprietà esclusiva.
Svolgimento del processo
B.M. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Milano il Condominio sito di quella città (OMISSIS) per sentire annullare la delibera con cui l’assemblea gli aveva negato la possibilità di ampliare la finestra del bagno dell’appartamento di sua proprietà ubicato in quel Condominio.
Il convenuto, costituendosi in giudizio, chiedeva il rigetto della domanda.
Nel corso di causa spiegava intervento volontario M.S., che nelle more si era resa acquirente dell’immobile dell’attore ed otteneva di chiamare in causa i terzi C.V. e C.I.M.A. proprietari degli appartamenti verso i quali avrebbe guardato la progettata finestra.
Con sentenza depositata del 22 maggio 2002 il Tribunale annullava la impugnata delibera.
Con sentenza del 12 maggio 2004 la Corte di appello di Milano rigettava l’impugnazione proposta dal Condominio, da C. V. e C.I.M.A..
In primo luogo era disattesa l’eccezione di carenza di interesse ad agire del B. e della M. sollevata con il primo motivo dell’appello sul rilievo che, per quanto riguardava l’originario attore, la successione a titolo particolare nel diritto controverso non opera alcun effetto sul rapporto processuale attuando, ai sensi dell’art. 111 cod. proc. civ., una sostituzione processuale dell’avente causa che diventa parte del processo; per quel che concerneva la M., non vi era stata alcuna dichiarazione di disinteresse alla pronuncia nè ciò era desumibile dalla linea difensiva tenuta dalla predetta che aveva dichiarato di non volere realizzare l’ampliamento della finestra.
Poichè l’opera progettata comportava un uso individuale della cosa comune veniva escluso quindi che si fosse in presenza di un ipotesi di litisconsorzio necessario nei confronti dei condomini, posto che in materia di azioni concernenti le parti e i servizi comuni la legittimazione passiva spetta all’amministratore del condominio.
L’ampliamento della finestra, che insisteva sulla rientranza del fabbricato completamente aperta sul cortile, era considerata legittima, tenuto conto che le finestre degli appartamenti siti al primo e al secondo piano erano state ampliate ed adeguate a quelle degli appartamenti di fronte; 1 opera non determinava alcun pericolo per la statica dell’edificio; la distanza della veduta era rispettosa delle prescrizioni di cui agli artt. 905 e 906 cod. civ.. L’uso della cosa comune non impediva il pari uso agli altri condomini che, come del resto già fatto dai proprietari degli appartamenti siti al primo e al secondo piano, avrebbero potuto in futuro realizzare aperture simili.
Avverso tale decisione propongono ricorso per cassazione affidato a cinque motivi il Condominio di (OMISSIS), C.V. e C.I.M.A., che hanno depositato memoria illustrativa. Resistono con controricorso gli intimati.
Motivi della decisione
Con il primo motivo i ricorrenti, lamentando violazione e falsa applicazione degli artt. 1102, 1130, 1131 e 1135 cod. civ., nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 cod. proc. civ., n. 5), denunciano la mancata integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti i condomini, mentre era stata disposta la parziale integrazione in relazione soltanto a due condomini.
L’attore aveva chiesto il riconoscimento il diritto di utilizzare le parti comuni e tale pretesa risultava in conflitto con i diritti degli altri condomini al rispetto delle distanze legali: tenuto conto che le opere che l’attore aveva intenzione di realizzare incidevano non soltanto sulle parti comuni ma anche sulle proprietà esclusive e che il medesimo aveva agito per fare accertate la titolarità di diritti reali in concorrenza o in contrasto con il diritto del singolo, sarebbe stata necessaria la partecipazione al giudizio di tutti i condomini, secondo quanto al riguardo affermato dalla giurisprudenza di legittimità.
Il motivo è infondato.
La domanda proposta dall’attore ha ad oggetto l’impugnativa della delibera condominiale con cui l’assemblea aveva negato l’autorizzazione all’ampliamento della finestra che il B. aveva chiesto con riferimento al potere spettante ai comproprietari sui muri comuni: la domanda non aveva ad oggetto l’accertamento o la costituzione di diritti reali in contrasto con quelli degli altri condomini, tenuto conto che l’assemblea del condominio ha il potere di decidere in ordine all’uso e alla gestione delle parti comuni, non rientrando nelle sue attribuzioni quello di dare o meno autorizzazioni che incidano sui diritti esclusivi dei singoli condomini (un’eventuale deliberazione sarebbe affetta da nullità radicale). Ed appunto e sempre in relazione a quella che era stata la richiesta inoltrata all’assemblea l’attore ha agito, facendo valere l’illegittimità della delibera in quanto emessa in violazione dei poteri spettanti ai condomini, ai sensi degli artt. 1102 e 1122 cod. civ., nell’ambito dei quali era stato prospettato il diritto di realizzare l’opera. Orbene, poichè la controversia aveva ad oggetto la verifica in ordine al legittimo uso da parte del condomino dei beni comuni, correttamente l’azione è stata proposta nei confronti dell’amministratore che è il soggetto legittimato a rappresentare la collettività condominiale relativamente ai beni comuni.
I precedenti di legittimità richiamati dai ricorrenti appaiono inconferenti, perchè hanno ad oggetto fattispecie del tutto diverse da quella in oggetto: nei casi esaminati dalla Cassazione la partecipazione di tutti condomini si rendeva necessaria in quanto altrimenti la sentenza, incidendo sui diritti dei condomini, sarebbe stata inutiliter data, come ad es. nel caso di arretramento o di demolizione dell’edificio condominiale realizzato in violazione delle distanze, in cui non si sarebbe potuta eseguire la relativa decisione nei confronti di quei condomini che non avessero preso parte al giudizio così come non avrebbe potuto spiegare effetti nei confronti di questi ultimi la pronuncia emessa nell’ipotesi di accertamento della natura condominiale o meno di un bene.
Con il secondo motivo i ricorrenti, lamentando violazione e falsa applicazione degli artt. 100 e 111 cod. proc. civ., nonchè omessa,insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, censurano la decisione gravata laddove, nel respingere l’eccezione di carenza di interesse ad agire dell’attore e della M., avevano erroneamente fatto riferimento all’art. 111 cod. proc. civ., che non avrebbe dovuto spiegare alcun rilievo nella specie; l’attore non aveva un interesse attuale e concreto alla pronuncia in ordine all’eventuale nullità della delibera impugnata in considerazione dell’avvenuto trasferimento della proprietà dell’appartamento che non era più suo per quanto riguardava la M., i Giudici non avevano considerato che la medesima aveva dichiarato di non volere realizzare la finestra, l’intervento era stato ammesso solo ai fini dell’insaturazione di una successiva controversia relativa al risarcimento dei danni: il che comportava un’ inammissibile scissione fra la pronuncia generica e quella sulla liquidazione del danno. La predetta interventrice era carente di un interesse concreto ed attuale alla decisione, posto che essa acquirente aveva dichiarato di non intendere realizzare il progetto per il quale era stata formulata la richiesta di autorizzazione negata dall’assemblea: il che era confermato dalla circostanza che l’intervento era finalizzato ad ottenere un futuro risarcimento.
Il motivo è infondato.
L’indagine relativa alla esistenza in concreto di un interesse attuale alla decisione nell’alienante della cosa litigiosa è del tutto irrilevante, posto che la legittimazione dell’attore ad ottenere la pronuncia richiesta deriva proprio dalla sua qualità di sostituto processuale ex lege attribuitagli dall’art. 111 cod. proc. civ., al fine di consentire la prosecuzione del giudizio e l’emanazione della sentenza che spiegherà effetti nei confronti dell’acquirente.
Pere quanto riguarda la M., la circostanza che quest’ultima avesse dichiarato di non avere al momento interesse ad eseguire l’opera, non escludeva un suo interesse ad ottenere una pronuncia che dichiarasse l’illegittimità della delibera impugnata ed impedisse la formazione di un giudicato che sarebbe stato preclusivo di un eventuale futuro ampliamento e dell’esercizio dei poteri al riguardo spettanti ex art. 1102 cod. civ., oltre all’eventuale conseguente risarcimento dei danni che – si noti – la M. si era riservata di chiedere in altro giudizio: pertanto, il riferimento alla scissione fra an e quantum debeatur è del tutto fuori luogo, posto che nella specie nessuna domanda risarcitoria è stata proposta dalla interventrice nel presente giudizio.
Con il terzo motivo i ricorrenti, lamentando violazione e falsa applicazione degli artt. 1102 e 1122 cod. civ., nonchè omessa,insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, censurano la sentenza impugnata che non aveva esaminato la questione che si era dedotta, sia con la comparsa di costituzione che con la comparsa conclusionale di appello, in ordine al diritto alla riservatezza; i ricorrenti avevano rilevato che l’attuale consistenza dell’apertura consentiva di salvaguardare i diritti alla riservatezza e al rispetto delle distanze; in particolare, il diritto alla riservatezza, tutelato dall’art. 903 cod. civ., deve essere riconosciuto e salvaguardato anche quando si tratta di stabilire i confini di legittimità dell’uso delle cose comuni ai sensi dell’art. 1102 citato; la modifica delle cose comuni non può arrecare nocumento agli altri condomini. La sentenza si era limitata a un accenno al concetto di pari uso, peraltro incoerentemente costruito come mero diritto di potere realizzare quanto a propria volta l’altro richiede, senza esaminare quanto si era dedotto in merito ai limiti e al contenuto del diritto del condomino secondo quanto al riguardo elaborato dalla dottrina. Nella specie, era devastante il pregiudizio al diritto alla riservatezza delle signore I. e C. atteso che, per effetto della trasformazione da luce in veduta dell’apertura (attualmente apribile a vasistas, cioè con la rotazione solo della parte più alta) e con l’altezza del futuro davanzale dall’attuale mt. 1,90 a cm. 94, la questa consentirebbe di guardare nell’appartamento delle C. per una profondità fino a 3,30 mt. La questione non poteva essere esaminata soltanto con riferimento al tema delle distanze legali, posto che la disciplina condominiale esige ben diversi profili di esame e l’adozione di ben diversi parametri. Del resto, la giurisprudenza di legittimità, anche in materia di superamento ed eliminazione delle barrire architettoniche, ha ritenuto che l’installazione dell’ascensore non può comportare il sensibile deprezzamento dell’unità immobiliare e che sono vietate le innovazioni lesive dei diritti di altro condomino sulle proprietà esclusive indipendentemente da eventuali utilità compensative.
Con il quarto motivo i ricorrenti, lamentando violazione e falsa applicazione degli artt. 1102, 1122 e 900 cod. civ., nonchè omessa,insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, deducono che la decisione gravata non aveva esaminato la questione che la istituzione di una nuova veduta integrava una innovazione della cosa comune vietata al singolo, tenuto conto della trasformazione della luce in veduta di cui si era dedotto in comparsa di risposta.
Con il quinto motivo i ricorrenti, lamentando violazione e falsa applicazione dell’art. 900 cod. civ., e segg., D.M. n. 1444 del 1968, art. 9, nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia), deducono che essi ricorrenti avevano lamentato altresì la violazione delle distanze legali di cui al D.M. n. 1444 del 1968, ed il consulente, pur avendone verificato la sussistenza, aveva ritenuto l’inapplicabilità al condominio di tali distanze: la Corte si era limitata a recepire acriticamente le conclusioni del consulente e ciò in contrasto con gli insegnamenti della Suprema Corte.
Il terzo, il quarto e il quinto motivo, che stante la stretta connessione possono essere trattati congiuntamente, sono infondati.
In tema di condominio, ai sensi dell’art. 1102 cod. civ., comma 1, ciascun condomino è libero di servirsi della cosa comune, anche per fine esclusivamente proprio, traendo ogni possibile utilità, purchè non alteri la destinazione della cosa comune e consenta un uso paritetico agli altri condomini. L’apertura di finestre ovvero la trasformazione di luce in veduta su un cortile comune rientra nei poteri spettanti ai condomini ai sensi dell’art. 1102 cod. civ. tenuto conto che i cortili comuni, assolvendo alla precipua finalità di dare aria e luce agli immobili circostanti, ben sono fruibili a tale scopo dai condomini, cui spetta anche la facoltà di praticare aperture che consentano di ricevere aria e luce dal cortile comune o di affacciarsi sullo stesso, senza incontrare le limitazioni prescritte, in tema di luci e vedute, a tutela dei proprietari dei fondi confinanti di proprietà esclusiva. Ed invero, in considerazione della peculiarità del condominio, caratterizzato dalla presenza di una pluralità di unità immobiliari che insistono nel medesimo fabbricato, i diritti e gli obblighi dei partecipanti vanno necessariamente determinati alla luce della disciplina dettata dall’art. 1102 cod. civ.: qualora il condomino abbia utilizzato i beni comuni nell’ambito dei poteri e dei limiti stabiliti dalla norma sopra richiamata, l’esercizio legittimo dei diritti spettanti al condomino iure proprietatis esclude che possano invocarsi le violazioni delle norme dettate in materia di distanze fra proprietà confinanti. E, se certamente è configurabile e meritevole di tutela anche nel condominio il diritto alla riservatezza, il pregiudizio in concreto risentito non può prescindere da un valutazione comparativa degli opposti interessi dei condomini, dovendo il diritto di ciascuno proprietario di godere e di utilizzare la proprietà esclusiva essere naturalmente limitato dalla necessaria contiguità degli appartamenti, che inevitabilmente comporta restrizioni delle facoltà di godimento che al proprietario spetterebbero, dovendo al riguardo ritenersi connaturate quelle limitazioni che siano l’effetto dell’esercizio legittimo dei poteri spettanti agli altri comproprietari. Pertanto, l’indagine che il giudice di merito deve compiere ha ad oggetto esclusivamente se l’uso della cosa comune sia avvenuto nel rispetto dei limiti stabiliti dal citato art. 1102, dovendo al riguardo verificarsi se siano contemperate le opposte esigenze, ciò in attuazione di quel principio di solidarietà cui devono essere informati i rapporti condominiali e che richiede un costante equilibrio tra le esigenze e gli interessi di tutti i partecipanti alla comunione: una volta accertato che l’uso del bene comune sia conforme a tali parametri deve escludersi che sia configurabile una innovazione vietata. E, nella specie, tale valutazione è stata per l’appunto compiuta dal giudice di merito il quale ha in sostanza escluso il pregiudizio lamentato dalle condomine ricorrenti, avendo ritenuto che non era impedito il pari uso della cosa comune, tanto più che analoghi interventi erano stati già realizzati sulle finestre degli appartamenti siti al primo e al secondo piano e che l’opera da realizzarsi sarebbe stata eseguita nel rispetto delle distanze prescritte in materia di veduta, così implicitamente ritenendo attuato quel diritto alla riservatezza che il legislatore ha inteso assicurare stabilendo dei parametri obiettivi nel rispetto dei quali si devono ritenere soddisfatte le esigenze del vicino, e ciò tanto più nell’ambito del condominio degli edifici ove, come si è detto, occorre tenere conto del bilanciamento degli interessi in gioco. Ed ancora la peculiarità del fabbricato condominiale rende del tutto evidente che non può trovare applicazione nell’ambito del condominio la disciplina dettata dal D.M. n. 1444 del 1968, art. 9, in materia di distanze fra edifici.
Le spese della presente fase vanno poste in solido a carico dei ricorrenti, risultati soccombenti.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna i ricorrenti in solido al pagamento in favore dei resistenti delle spese relative alla presente fase che liquida in Euro 2.700,00 di cui Euro 200,00 per esborsi ed Euro 2.500,00 per onorari di avvocato oltre spese generali ed accessori di legge.