L’estensione della comunione al suolo, come dispone l’art. 1117 c.c., postula che su uno stesso terreno insistano diversi piani o porzioni di piani costituenti un unico edificio, sicchè le costruzioni fra loro separate, ancorchè erette su suolo originariamente del medesimo proprietario, non soggiacciono alla presunzione di comunanza posta dalla norma.

Infatti, la presunzione ex art. 1117 c.c., di comunanza del suolo su cui insiste il fabbricato condominiale, non opera in direzione inversa, nel senso che non si presume comune ogni altro edificio, separato e autonomo, eretto sul medesimo suolo su cui è sorto lo stabile condominiale.

Pertanto, l’originaria appartenenza al medesimo proprietario dell’unico terreno su cui in tempi diversi siano stati costruiti l’edificio condominiale e il fabbricato distinto, non costituisce quest’ultimo come parte del condominio stesso, se ciò non risulta dal relativo titolo di provenienza.

Cassazione Civile,  Sent. 15.04.2013, n. 9105

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

G.F., proprietario di un appartamento facente parte del condominio di via (…), nonchè di altre due unità immobiliari situate in un basso fabbricato posto all’interno del cortile dello stesso stabile condominiale, e di due autorimesse, immobili tutti, questi ultimi, di cui affermava l’estraneità al condominio sia in base all’atto di divisione che aveva frazionato l’originaria proprietà unica, sia sulla scorta del regolamento contrattuale che ne era scaturito, impugnava innanzi al Tribunale di Torino la delibera dell’assemblea condominiale del 14.5.1998 approvata a maggioranza, che aveva imputato a tali fondi una parte delle spese già sostenute per l’anno 1997 e di quelle da sostenere nell’anno 1998.

Nel resistere in giudizio il condominio deduceva che gli immobili in questione non erano stati inclusi tra le unità facenti parte del condominio perchè all’epoca di redazione del regolamento essi costituivano un unico locale, che solo successivamente il G. aveva trasformato e suddiviso in due unità abitative, collegandole alle fognature condominiali e ai servizi comuni per la somministrazione di acqua, energia elettrica e antenna TV centralizzata, e munendole di un passaggio attraverso l’androne comune.

Dette unità, pertanto, facevano parte del condominio, di cui utilizzavano i servizi comuni.

Con sentenza del 10.12.2003 il Tribunale rigettava la domanda, ritenendo, in conformità alle indagini tecniche svolte dal c.t.u. sulla base delle originarie consistenze e rappresentazioni grafiche catastali, che le porzioni immobiliari in oggetto, sebbene non comprese nell’originario regolamento contrattuale, dovessero essere contemplate nella ripartizione delle spese comuni, secondo il criterio di cui all’art. 1123 c.c..

L’impugnazione proposta dal G. era respinta dalla Corte d’appello di Torino, con sentenza n.1867 del 21.11.2005.

Riteneva la Corte territoriale, per quanto ancora rileva in questa sede di legittimità, che le censure che l’appellante aveva mosso alla sentenza di primo grado muovevano dall’assioma che la fattispecie fosse regolata unicamente dal regolamento condominiale di natura contrattuale, allegato all’atto di divisione del 31.7.1959, allorchè i beni in questione ancora non esistevano nell’attuale loro “consistenza, sicchè non poteva revocarsi in dubbio che le norme del regolamento dovessero essere rivedute alla luce della mutata destinazione di fatto delle unità immobiliari in oggetto.

Il che, proseguiva la Corte torinese, se costituiva un valido presupposto per la revisione delle tabelle millesimali, solo indirettamente riguardava il thema decidendum, giacchè la delibera impugnata non aveva apportato alcuna modifica alle tabelle millesimali, ma aveva soltanto stabilito una diversa ripartizione delle spese ex art. 1123 c.c., nei confronti di tutte le unità immobiliari, incluse quelle di proprietà G. non ancora esistenti all’epoca del contratto di divisione e della redazione del regolamento.

Ciò posto, l’inclusione nel condominio anche di tali unità immobiliari si doveva trarre dagli accertamenti del c.t.u., effettuati in base agli atti di trasferimento e alle schede catastali d’impianto del fabbricato, risalenti al 1939, e successive variazioni.

Aggiungeva, infine, che se qualche servizio comune non fosse stato attribuibile anche alle unità di proprietà G., sarebbe stato questi a doverne fornire la prova, invece di limitarsi ad una dissociazione del tutto generica, che del resto non trovava riscontro nel verbale dell’assemblea del 14.5.1998, in cui il G., lungi dal protestare il non uso di tutti o di taluni servizi, aveva travato la sua opposizione con l’argomento che in proposito il regolamento condominiale nulla prevedeva al riguardo.

Per la cassazione di tale sentenza G.F. propone ricorso affidato a tre mezzi d’annullamento.

Il condominio è rimasto intimato.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. – Col primo ed il secondo motivo, unificati dal ricorrente nella trattazione, è dedotta, rispettivamente, la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, e l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, “ai sensi dell’art. 360, c.p.c., n. 5 in relazione agli artt. 61, 115 e 116 c.p.c.”.

Sostiene parte ricorrente che con la delibera impugnata l’assemblea del condominio ha, in realtà, ripartito indistintamente sia nel consuntivo del 1997 che nel preventivo del 1998 tutte le spese, ad eccezione di quelle per il consumo d’acqua, in base ai millesimi di proprietà, e non in forza dell’uso comune, determinando in tal modo quote di spesa del tutto avulse dall’invocato criterio di cui all’art. 1123 c.c., a modifica dei millesimi di proprietà di cui alla tabella allegata al regolamento condominiale.

La delibera, pertanto, non ha modificato il criterio di riparto, che è stato anzi confermato in proporzione delle quote millesimali per tutti i condomini, ma ha modificato le quote spettanti a tutti i condomini, tant’è che alle quattro unità immobiliari del G. sono state attribuite quote di spese generali (oltre che di manutenzione), che in quanto tali, derivando cioè dalla diversità strutturale della cosa, non possono rientrare nel caso disciplinato dall’art. 1123 c.c..

Di conseguenza, e al contrario di quanto sostenuto dalla Corte territoriale, la delibera impugnata ha operato a maggioranza una vera e propria modifica della tabella millesimale contenuta nel regolamento contrattuale, in spregio al principio per ci una tale modifica può essere posta in essere solo con il consenso unanime dei condomini.

L’errore della Corte territoriale, prosegue il ricorrente, si è esteso anche all’omessa considerazione di altre emergenze istruttorie, come la relazione del c.t.u., nel senso che la Corte ha fondato le sue convinzioni su conclusioni che non sono state evidenziate dall’ausiliario; e che, d’altro canto, la relazione tecnica non può sopperire alla mancanza della prova da parte del soggetto oneratovi. Infatti, come riconosciuto anche nella sentenza impugnata, il mandato al c.t.u. era stato definito fra le parti non al fine di accertare se i due distinti complessi costituissero un condominio, ma al fine di accertare, sulla base di un accordo sopravvenuto per disciplinare i futuri rapporti tra i due gruppi di immobili, le percentuali millesimali da attribuire alle nuove unità costituenti il nuovo condominio.

La relazione del c.t.u., pertanto, non ha valutato, in conformità di un quesito che tale accertamento non le demandava, se i due distinti edifici avessero e godessero di beni e servizi comuni, ma si è limitata a considerare le caratteristiche e la conformazione delle varie unità al fine di determinare la nuova tabella millesimale, derivante dall’accorpamento di due immobili fino ad allora autonomi.

Inoltre, non vi è agli atti alcuna prova che dimostri che tra i due complessi immobiliari vi fossero beni comuni tali da giustificare l’applicazione dell’art. 1123 c.c., prova che il condominio convenuto non ha mai fornito e che gravava sul condominio, che tale circostanza di fatto ha addotto.

2. – Il terzo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 1135 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, e il vizio motivazionale “ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, in relazione all’art. 112 c.p.c.”, atteso che la Corte territoriale, pur avendo menzionato nelle premesse della sentenza d’appello la questione, sollevata dal G., circa l’inesistenza del potere del condominio di estendere le proprie norme a immobili e persone estranei ad esso, ha poi completamente omesso tale accertamento al momento della decisione.

3. – I primi due motivi, da esaminare congiuntamente, sono fondati nei termini che seguono.

3.1. – Condizione – controversa – della domanda è l’inclusione del fabbricato di proprietà G., fisicamente separato e autonomo rispetto al corpus dello stabile condominiale, nel condominio di via (…), inclusione che la Corte territoriale ha tratto da una premessa di fatto e da un giudizio tecnico.

La prima, che si evince dalla narrativa della sentenza impugnata, è che il fabbricato di proprietà G. sorge sul cortile del condominio di via (…), ed è stato costruito dopo l’edificio condominiale. Il secondo scaturisce da (non meglio precisati in sentenza) accertamenti del c.t.u., effettuati in base agli atti di trasferimento e alle schede catastali d’impianto del fabbricato, risalenti al 1939, nonchè alle successive variazioni.

Tale metodo di accertamento (peraltro non del tutto perspicuo nel nesso istituito fra la premessa di fatto e il successivo giudizio tecnico) non è esatto in rapporto alla corretta interpretazione dell’art. 1117 c.c..

In base a detta norma, e in linea generale, l’estensione della proprietà condominiale ad edifici separati ed autonomi rispetto all’edificio in cui ha sede il condominio può essere giustificata soltanto in ragione di un titolo idoneo a far ricomprendere il relativo manufatto nella proprietà del condominio stesso, qualificando espressamente tale bene come ad esso appartenente negli atti in cui, attraverso la vendita dei singoli appartamenti, il condominio risulta costituito (Cass. n. 8012/12).

Quanto al dato – che pure sembra valorizzato dalla sentenza impugnata – della proprietà del suolo su cui sorge sia lo stabile comune, sia il separato fabbricato di proprietà G., va osservato che l’estensione della comunione al suolo, come dispone l’art. 1117 c.c., postula che su uno stesso terreno insistano diversi piani o porzioni di piani costituenti un unico edificio, sicchè le costruzioni fra loro separate, ancorchè erette su suolo originariamente del medesimo proprietario, non soggiacciono alla presunzione di comunanza posta dalla norma (Cass. n. 2864/83, che da ciò ha tratto il corollario per cui con il trasferimento dei fabbricati separati è alienato pure il suolo sul quale essi sorgono, a meno che l’alienante non costituisca soltanto un diritto di superficie in favore dell’acquirente).

In altri termini, la presunzione ex art. 1117 c.c., di comunanza del suolo su cui insiste il fabbricato condominiale, non opera in direzione inversa, nel senso che non si presume comune ogni altro edificio, separato e autonomo, eretto sul medesimo suolo su cui è sorto lo stabile condominiale.

L’originaria appartenenza al medesimo proprietario dell’unico terreno su cui in tempi diversi siano stati costruiti l’edificio condominiale e il fabbricato distinto, non costituisce quest’ultimo come parte del condominio stesso, se ciò non risulta dal relativo titolo di provenienza.

Pertanto, non essendo stato esplicitato tale riscontro, la sentenza impugnata non resiste alle critiche mosse.

4. – L’accoglimento dei primi due motivi assorbe l’esame del terzo, che ne dipende logicamente.

5. – Per le considerazioni svolte, la sentenza impugnata va cassata, in relazione ai motivi accolti, con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Torino, che nel decidere il merito si atterrà ai principi sopra esposti e provvederà, ai sensi dell’art. 385 c.p.c., comma 3, anche sulle spese del presente giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte accoglie i primi due motivi, assorbito il terzo, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Torino, che provvederà anche sulle spese di cassazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 9 gennaio 2013.

Depositato in Cancelleria il 15 aprile 2013

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