L’assegnazione della casa familiare, nel giudizio di separazione o di divorzio, risulta finalizzata all’esclusiva tutela della prole e dell’interesse della stessa a permanere nell’ambiente domestico in cui è cresciuta, non potendo disporsi allo scopo di sopperire alle esigenze del coniuge più debole, a garanzia delle quali sono destinati unicamente gli assegni di mantenimento. Ne discende che la concessione del diritto di abitazione nella casa familiare presuppone l’affidamento di figli minori ovvero la convivenza di figli maggiorenni ed economicamente non autosufficienti. Nel caso di specie, essendo incontestato che i figli della coppia sono già da molti anni economicamente autonomi e non conviventi con la madre e non risultando, dagli atti processuali, alcun accordo tra le parti avente ad oggetto il godimento esclusivo della casa coniugale da parte della ricorrente, ne discende il rigetto dalla relativa domanda.
Corte d’Appello Roma, Sezione PF civile – Sentenza 15 febbraio 2013, n. 919
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
CORTE D’APPELLO DI ROMA
SEZIONE PERSONA E FAMIGLIA
Composta dai magistrati:
dott. Alida Montaldi – Presidente rel. –
dott. Rosaria Ricciardi – Consiglierie –
dott. Antonio De Santis – Consigliere –
riunita in camera di consiglio ha pronunciato la seguente
SENTENZA
Nel procedimento RG 6554/09 promosso con ricorso in appello avverso la sentenza 13.2/13.5.09 del Tribunale di Roma vertente
Tra
La.Sa.
Domiciliata in Roma, via Luigi Luciani n. 1, presso l’avv. Da.Ma., che la rappresenta e difende come da mandato in atti
Appellante
e
Ma.Sa.
Domiciliato in Roma, Piazza (…), presso l’avv. Pi.Co., che lo rappresenta e difende come da mandato in atti
Appellato e appellante incidentale
Con la partecipazione del Procuratore Generale in sede.
Oggetto: assegno divorzile.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con la sentenza indicata in epigrafe, il Tribunale di Roma, avendo già pronunciato con sentenza non definitiva in data 12.12.2003 la cessazione degli effetti civili del matrimonio tra Ma.Sa. e La.Sa., ha respinto la domanda della La. di assegnazione della ex casa coniugale di via (…) in Roma, ha dichiarato abbandonate le domande della La. relative all’attribuzione di quota del TFR percepito dal coniuge divorziato e dei beni asseritamente in comunione de residuo, ha posto a carico del Ma. l’obbligo di corrispondere mensilmente alla La. un assegno di divorzio di Euro 5.100,00 mensili, con decorrenza dalla medesima pronuncia e rivalutazione annuale secondo indici ISTAT, fermi restando per il periodo pregresso i provvedimenti provvisori adottati nel corso del giudizio, e ha compensato tra le parti le spese del procedimento.
Avverso la sentenza citata ha proposto appello Santa La., con atto di citazione notificato a controparte e depositato presso la cancelleria del giudice ad quem il 7.12.2009, chiedendo che l’assegno di divorzio in suo favore fosse elevato ad Euro 15.000,00 mensili, che le fosse assegnata in uso, a titolo di assegno integrativo, la casa di via del Fontanile Arenato n. 250, per il 50% di proprietà del coniuge divorziato, che fosse accertata l’entità della comunione “de residuo” e a lei attribuita la quota del 50%, a norma dell’art. 177 c.c., e che le fosse attribuita la quota del 40% del TFR percepito dal coniuge divorziato, a norma dell’art. 12 bis l. 898/70.
A motivo del gravame l’appellante ha dedotto: che le domanda di attribuzione delle quote di sua spettanza del valore dei beni della comunione “de residuo” e del TFR percepito dal Ma. non potevano ritenersi abbandonate per il solo fatto che non erano state reiterate in sede di precisazione delle conclusioni, dovendo tale volontà di rinuncia emergere dalla complessiva condotta processuale della parte; che nella valutazione comparata delle condizioni economiche dei coniugi non si erano adeguatamente considerati a) l’elevato tenore di vita goduto nei 27 anni di matrimonio con il Ma. e le aspettative al riguardo legittimamente maturate nel corso del medesimo, b) le proprie reali condizioni economiche anche in dipendenza delle precarie sue condizioni di salute, che ella aveva chiesto di accertare a mezzo CTU, che la rendevano invalida al 100% e di conseguenza bisognosa di continua assistenza, c) le reali condizioni economiche del Ma., quali erano risultate anche all’esito dell’accertamento eseguito dalla Guardia di Finanza nel corso dell’istruttoria del giudizio di primo grado, dal quale era emersa la prova di “compensi miliardari” percepiti dal coniuge e, di conseguenza, della cospicua entità degli interessi derivanti dagli investimenti effettuati con detti compensi, d) del sostanziale accordo delle parti, desumibile dalla convergenza sul punto delle richieste da entrambe formulate, in ordine all’assegnazione della ex casa coniugale, di proprietà di entrambi i coniugi, alla La., ad integrazione dell’assegno di divorzio posto a carico del Ma. L’appellante ha inoltre richiesto la riforma della pronuncia sulle spese, deducendone la ingiustizia in relazione alla prevalente soccombenza ed al comportamento processuale del Ma.
Con decreto in data 25.1 2010 il presidente di sezione, rilevato che il giudizio avrebbe dovuto essere introdotto con ricorso anziché con atto di citazione, ha disposto il mutamento del rito e rimesso le parti dinanzi alla Corte in camera di consiglio, assegnando termini al ricorrente per la notifica del medesimo decreto alla controparte e ad entrambe le parti per il deposito di note e documenti, comprensivi della documentazione fiscale aggiornata.
Ma.Sa. si è costituito in giudizio con memoria depositata in data 14.4.2010 chiedendo il rigetto dell’appello principale ed in via incidentale la riforma della sentenza impugnata con esclusione del diritto della La. a percepire un assegno di divorzio o, in subordine, riduzione di detto assegno, e la condanna della stessa La. alla restituzione di quanto indebitamente percepito a tale titolo e alla refusione delle spese di entrambi i gradi del giudizio. L’appellato ha chiesto inoltre che, nel caso in cui non fosse stata ritenuta rinunciata, la domanda della La. relativa alla “comunione de residuo” venisse dichiarata inammissibile perché tardiva o in subordine respinta o, in ulteriore subordine, ove tale domanda fosse stata interpretata come richiesta di divisione dei beni della comunione, che fosse accertato e dichiarato che di questa faceva parte anche l’immobile di via (…) in Roma, con ogni conseguente pronuncia per l’attribuzione del cespite ed il pagamento dei conguagli ovvero per la vendita del bene con suddivisione in parti eguali del ricavato, e che fosse accertato e dichiarato inoltre che lo scioglimento della comunione si era verificato “de iure” ad ogni effetto di legge alla data del 23.10.1998, allorché era passata in giudicato, per mancato gravame su tale capo, la pronuncia del Tribunale di Roma che aveva dichiarato la separazione personale dei coniugi, con conseguente esclusione dalla comunione di qualsiasi provento percepito dal marito dopo tale data.
Il Ma. ha in particolare dedotto: che il giudice di primo grado aveva correttamente ritenuto abbandonate le domande relative all’attribuzione di quota dei beni facenti parte della comunione de residuo e di quota del TFR, domande che la La., dopo che l’attore ne aveva rilevato ed eccepito la inammissibilità, non aveva riproposto nelle conclusioni finali e che neppure avevano formato oggetto di alcuna attività istruttoria, né erano state trattate negli scritti conclusivi; che tali domande dovevano in ogni caso essere ritenute inammissibili in primo grado, come tempestivamente già eccepito, perché formulate per la prima volta con la memoria depositata il 24.11.2003, oltre il termine perentorio di cui all’art. 167 c.p.c., e non proponibili per la prima volta in secondo grado ai sensi dell’art. 345 c.p.c.; che, quanto al merito di tali domande: 1) tra i beni da dividere a seguito dello scioglimento della comunione legale fra i coniugi avrebbe dovuto essere computato l’immobile di via (…), di proprietà comune, e non invece, neppure de residuo, i proventi dell’attività lavorativa del marito acquisiti dopo il 23.10.1998, data del passaggio in giudicato della sentenza non definitiva che aveva pronunciato la separazione dei coniugi; 2) nulla era dovuto alla La. del TFR erogato al coniuge nel 1999, in quanto percepito prima che fosse introdotto il giudizio di divorzio. Quanto all’assegno di divorzio, l’appellato incidentale ha dedotto: che il tribunale aveva errato nel considerare, ai fini dell’attribuzione dell’assegno, solamente alcune delle disponibilità patrimoniali ed economiche della La., in particolare omettendo di valutare che la stessa risultava, dalla documentazione prodotta dallo stesso Ma. e dalle indagini della Guardia di Finanza, proprietaria esclusiva di un appartamento in Roma già nel 1995 locato a terzi per un valore di Lire 1.400.000, e quindi suscettibile di essere locato nell’attualità per un canone non inferiore a 1.500,00 Euro mensili, nonché comproprietaria di immobili nel comune di Lanciano, fra i quali per il 50% terreni, in parte venduti con un ricavo “pro – quota” di Euro 220.000,00, e un’abitazione anche questa suscettibile di essere locata a terzi per un canone non inferiore, pro quota, ad Euro 500,00 mensili, e per 6/70 di terreni anch’essi venduti, con un ricavo pro – quota di Euro 33.000,00; che dalla movimentazione dei conti correnti intestati alla La. emergeva l’investimento in titoli delle somme introitate a titolo di arretrati in esecuzione della sentenza impugnata, circostanza che non consentiva la valutazione di “modestia” della sua condizione patrimoniale ed economica, operata dal tribunale tenendo conto del solo suo reddito da pensione, e che avrebbe dovuto condurre invece ad una valutazione di complessiva adeguatezza dei suoi mezzi economici a garantirle il tenore di vita che durante il matrimonio le aveva assicurato il reddito del marito, all’epoca pari a netti 13.000.000 di vecchie lire; che erroneamente il tribunale aveva raffrontato la condizione patrimoniale della La., già riduttivamente considerata, con la condizione economica attuale del Ma., senza considerare che i proventi dell’attività di lavoro autonomo di questi, oltre ad essere connotati da temporaneità e precarietà, derivando al medesimo da incarichi a tempo determinato assunti dopo il pensionamento, gli erano stati conferiti in epoca successiva al passaggio in giudicato della pronuncia di divorzio e non potevano dunque essere considerati sviluppi naturali e prevedibili dell’attività da lui svolta durante la vita matrimoniale; che di conseguenza doveva ritenersi che la La., con il reddito da pensione e il patrimonio personale di cui godeva, era economicamente autonoma ed in grado di mantenere il medesimo tenore di vita goduto durante il matrimonio; che la domanda di assegnazione in uso della casa coniugale di via (…) – della quale aveva chiesto il rigetto in primo grado sia con la memoria di costituzione ex art. 183 c.p.c. che nelle conclusioni formulate all’udienza del 30.10.2008 – era del tutto priva di presupposti, essendo i figli della coppia ormai da tempo maggiorenni, economicamente autonomi e non più conviventi con la madre; che del tutto irrilevante si palesava l’accertamento a mezzo CTU delle condizioni di salute della La., sia perché questa era già titolare di pensione di anzianità ed era dunque ininfluente accertare la eventuale diminuzione della sua capacità lavorativa in ragione della riconosciuta invalidità, sia perché non era stata avanzata alcuna pretesa risarcitoria che potesse giustificare l’accertamento del deterioramento delle sue condizioni di salute in dipendenza della separazione; che infine la pronuncia di primo grado era da reputarsi corretta con riguardo alle spese di lite, regolate in ragione della difficoltà delle questioni trattate.
Sono stati acquisiti il fascicolo di ufficio del procedimento di primo grado ed il parere del Procuratore Generale.
Acquisita la ulteriore documentazione prodotta dalle parti su invito della Corte, la causa è stata trattenuta in decisione sulle conclusioni riferite in epigrafe.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Preliminarmente deve rilevarsi l’infondatezza del motivo del gravame principale concernente il capo della sentenza impugnata che ha dichiarato abbandonate le domande avanzate dalla La. di attribuzione di quota dei beni facenti parte della comunione legale tra i coniugi e di quota del TFR percepito da Ma.Sa. all’atto della cessazione del suo rapporto di lavoro subordinato con l’ENEL.
Dal verbale dell’udienza del 30.10.2008, fissata per la precisazione delle conclusioni, risulta infatti che il procuratore della convenuta La. ha concluso senza riportarsi alle richieste di cui alle memoria di costituzione dinanzi al Giudice Istruttore depositata il 24.11.2003 ed ha formulato in via principale la sola domanda di attribuzione di un assegno divorzile di 15.000,00 Euro ed in via subordinata e istruttoria la richiesta di accertare le somme corrisposte al Ma. dalle società Ap. e l’espletamento di una CTU sulle condizioni di salute della stessa La.
Al riguardo la Corte di cassazione ha invero affermato che “affinché una domanda proposta con l’atto introduttivo del giudizio possa ritenersi abbandonata non è sufficiente che non risulti riproposta nella precisazione delle conclusioni, costituendo tale omissione una mera presunzione di abbandono, in quanto invece è necessario accertare se, dalla valutazione complessiva della condotta processuale della parte o dalla stretta connessione della domanda non riproposta con quelle esplicitamente reiterate, emerga una volontà inequivoca di insistere nella domanda pretermessa” (Cass. n. 1603/2012). Nel caso di specie, dall’esame dei verbali di udienza e delle memorie depositate nel primo grado di giudizio non emerge un comportamento processuale della stessa parte che possa essere considerato inequivocabilmente indicativo della volontà di non abbandonare le domande non reiterate in sede di precisazione delle conclusioni. In particolare, la domanda di attribuzione di quota dei beni oggetto della comunione legale, formulata solo con la memoria depositata dinanzi al giudice istruttore depositata il 24.11.2003, non è stata mai coltivata con l’articolazione di specifiche istanze istruttorie volte alla individuazione e stima dei beni oggetto della comunione, mentre le allegazioni relative all’entità del TFR percepito dal Ma. sono state nel corso del giudizio rivolte alla evidenziazione delle ingenti somme complessivamente introitate dal medesimo e del sempre più netto divario nelle condizioni economiche delle parti che ne è conseguito, piuttosto che a sostegno della domanda di attribuzione di quota di detto TFR. Le domande in questione non sono state poi neppure menzionate nelle memorie conclusionali e di replica depositate dalla stessa parte ai sensi dell’art. 190 c.p.c.
Egualmente infondato è il motivo di gravame concernente la mancata assegnazione all’appellante della casa di Roma, via (…), di proprietà comune delle parti e già costituente la casa familiare.
Infatti, secondo il consolidato orientamento della Corte di Cassazione, che questa Corte condivide, l’assegnazione della casa familiare nel giudizio di separazione o di divorzio, “risulta finalizzata alla esclusiva tutela della prole e dell’interesse di questa a permanere nell’ambiente domestico in cui è cresciuta, non potendo essere disposta, a mo’ di componente degli assegni rispettivamente previsti dagli artt. 156 c.c. e 5 della legge n,. 898 del 1970, allo scopo di sopperire alle esigenze del coniuge più debole, a garanzia delle quali sono destinati unicamente gli assegni sopraindicati onde la concessione del beneficio in parola resta subordinata all’imprescindibile presupposto dell’affidamento di figli minori o della convivenza di figli maggiorenni ed economicamente non autosufficienti ..” (v. Cass. 1545/06 e n. 10994/07).
Nel caso di specie è incontestato che i figli della coppia sono da già da molti anni economicamente autonomi e non conviventi con la madre. Né, d’altro canto, risulta dagli atti processuali che sia mai intervenuto alcun accordo tra le parti avente ad oggetto il godimento esclusivo da parte della La. della casa di proprietà comune quale componente dell’assegno di divorzio.
Quanto ai motivi di gravame, principale ed incidentale, concernenti il capo della sentenza impugnata che ha riconosciuto alla La. un assegno mensile a carico del coniuge divorziato, occorre ricordare che, secondo la costante e consolidata giurisprudenza della Corte di legittimità formatasi nell’interpretazione dell’art. 5 l. n. 898/70, così come modificato dall’art. 10 l. 6.3.87 n. 74, l’accertamento del diritto all’assegno di divorzio (di natura esclusivamente assistenziale) si articola in due fasi: nella prima il giudice deve accertare la inadeguatezza dei mezzi dell’istante (e la impossibilità di questi di procurarseli per ragioni oggettive) a consentire al medesimo un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, o che poteva legittimamente fondarsi su aspettative maturate nel corso del matrimonio; nella seconda deve provvedere alla determinazione in concreto dell’assegno, utilizzando, nell’ambito di una valutazione ponderata e bilaterale i criteri indicati nel medesimo art. 5 cit. (c.f.r. Cass. n. 18241/06, n. 10210/05, n. 4040/2003, n. 4809/98).
Inoltre, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che il tenore di vita coniugale al quale rapportare la valutazione di adeguatezza dei mezzi economici del richiedente l’assegno deve essere desunto dalle potenzialità economiche dei coniugi, ossia dall’ammontare complessivo dei loro redditi e dalle loro disponibilità patrimoniali (cfr. Cass. Sez. I n. 6541/02 e altre conformi) con riguardo al momento della pronuncia di divorzio e non della cessazione della convivenza, comprendendovi anche gli incrementi economici intervenuti dopo la cessazione di questa, che costituiscano tuttavia il naturale e prevedibile sviluppo dell’attività svolta durante la stessa (v. Cass. sez. I n. 785/2012, 20204/2007, 4764/07, n. 24496/2006, 19446/2005, 17895/04, n. 1487/04 ed altre conformi). Sono state inoltre più volte chiarite dalla giurisprudenza di legittimità le diverse natura, struttura e finalità dell’assegno di divorzio rispetto a quello di mantenimento, desumibili dalla rispettiva disciplina e dal costante e univoco orientamento giurisprudenziale, che si è sopra richiamato, con riferimento all’assegno di divorzio (v. fra le altre Cass. n. 5140/2011, n. 25010/07 e n. 15055/2000).
Nel caso di specie, dalla documentazione in atti, acquisita in entrambi i gradi di giudizio, risulta:
che i coniugi (rispettivamente nati nel 1937 il Ma. e nel 1934 la La.) hanno contratto matrimonio nel 1964 e dalla loro unione sono nati due figli, Ma. nel 1966 e Da. nel 1973, entrambi già da molti anni economicamente autonomi; che la loro convivenza è cessata nel 1991, quando è stato introdotto dinanzi al Tribunale di Roma il giudizio definito con la sentenza n. 12403 del 1998, che ha pronunciato la loro separazione personale;
che con la sentenza citata il Tribunale di Roma ha respinto le domande di addebito della separazione reciprocamente avanzate dalle parti, ha assegnato alla moglie la casa coniugale di via (…) in Roma e determinato in Lire 4.000.000 mensili l’assegno di mantenimento in favore della moglie e a carico del marito; che detto assegno è stato elevato a Lire 8.000.000 mensili dalla Corte di appello di Roma con la sentenza n. 932 del 2001, che ha nel resto confermato la sentenza di primo grado; che la Corte di cassazione ha respinto i ricorsi proposti da entrambe le parti avverso la sentenza di secondo grado, ritenendo questa immune da censure sotto tutti i profili denunciati dalle parti, anche con riguardo alle statuizioni economiche; che all’epoca della cessazione della convivenza la La., insegnante, era già pensionata, percependo un reddito mensile netto di circa Lire 1.400.000, ed era anche già comproprietaria, per il 50%, della casa familiare di via (…), nonché proprietaria esclusiva di un altro appartamento in Roma, via (…), di circa 70 mq., dal quale, come accertato quanto meno con riferimento all’epoca del matrimonio del figlio Ma., nel 1995, ricavava un reddito di circa Lire 1.200.000 – 1.500.000 mensili, nonché comproprietaria di altri immobili nel comune di Lanciano, pervenutile in eredità, tra cui per il 50% con la sorella di un’abitazione in passato locata a terzi, ma di cui risulta documentato in atti il cattivo stato di manutenzione, e di terreni non produttivi di reddito; che dall’epoca della cessazione della convivenza la La. ha ininterrottamente mantenuto la disponibilità della casa familiare, di proprietà comune dei coniugi, ha continuato a percepire la pensione di anzianità, incrementatasi da 17.588,00 Euro annui lordi nel 2003 a 20.126,00 Euro annui lordi nel 2010, ha ricavato dalla locazione dell’appartamento di via (…) un reddito imponibile incrementatosi da 3.424,00 Euro nel 2003 a complessivi 6.353,00 nel 2010, è stata riconosciuta invalida civile in misura crescente in ragione dell’aggravarsi delle patologie documentate in atti, ha alienato alcuni dei beni ereditari, introitando complessivamente circa 250.000,00 Euro, ha costantemente investito in titoli parte delle sue entrate ed ha acquistato tre utilitarie, la prima nel 1986, rottamata nel 2002, la seconda nel 1996, dismessa per furto nel febbraio 2002 e l’ultima nell’aprile del 2002;
che il Ma., già dirigente dell’ENEL, con un reddito pari a circa Lire 17.000.000 nette mensili nel 1996, dopo la cessazione di tale attività per pensionamento, nel 1999, ha ricevuto un TFR di nette Lire 1.270.564.816 e ha progressivamente incrementato i propri redditi da lavoro, assumendo numerosi incarichi, di amministratore delegato, presidente e componente del consiglio di amministrazione di varie società operanti nel medesimo settore, così integrando il reddito da pensione con compensi mantenutisi costantemente elevati per circa 15 anni;
che in particolare da quanto riportato dalla motivazione della citata sentenza della Corte di appello di Roma in quanto risultante dalla documentazione fiscale acquisita in quel giudizio emerge che egli ha percepito un reddito annuo netto da lavoro dipendente o assimilato complessivamente di circa Lire 271.000.000 nel 1997, circa Lire 321.000.000 nel 1998 e circa Lire 404.000.000 nel 1999;
che dalla documentazione fiscale acquisita in entrambi i gradi di questo giudizio, risulta che detto già elevato reddito da lavoro dipendente o assimilato del Ma. si è ulteriormente incrementato nel corso del giudizio di divorzio, risultando pari a complessivi annui netti circa 395.000 Euro nel 2001, circa 205.000 Euro nel 2002, circa 183. 000 Euro nel 2005, circa 237.000 Euro nel 2008 e circa 250.000,00 Euro nel 2009, 2010 e 2011; che dalle più recenti dichiarazioni dei redditi e dalle visure catastali prodotte risulta che oltre ad essere comproprietario del 50% della citata casa familiare in Roma, il Ma. è divenuto comproprietario per il 50% di un altro immobile in Roma e di un immobile nel comune di Todi, non locati a terzi;
che nel 2010 ha acquistato un’auto (…) del valore di circa 82.000,00 Euro;
che gli elevati compensi percepiti dal Ma. da diverse società operanti nel settore dell’energia elettrica per gli incarichi contemporaneamente ricoperti in seno ai consigli di amministrazione di dette società subito dopo il pensionamento dall’ENEL, per diversi anni e senza soluzione di continuità, quali emergono anche dalle informazioni della Guardia di Finanza e dai documenti prodotti dalle medesime società eroganti nel primo grado di giudizio, a seguito di ordine di esibizione del giudice, sono solo in parte transitati sui conti correnti di cui sono stati prodotti gli estratti conto e che dagli estratti relativi al primo periodo dopo il pensionamento risultano effettuati dai medesimi enti bonifici di importo molto elevato anche a titolo di benefits, successivamente non reiterati; che il Ma. ha sempre mantenuto costante un portafoglio titoli di alcune centinaia di migliaia di Euro.
Le risultanze processuali che si sono evidenziate comprovano che la La. dopo la cessazione della convivenza ha sostanzialmente goduto dei medesimi redditi autonomi che già prima percepiva, tali da aver potuto solo in minima parte incidere sul tenore di vita goduto dalla coppia in costanza di matrimonio, essendo già durante la convivenza di gran lunga inferiori a quelli del marito, e che tale sua condizione di netta inferiorità economica si è accentuata nel periodo successivo alla cessazione della convivenza e sino alla pronuncia di divorzio e ancora dopo di questa, per il cospicuo incremento dei redditi del Ma., attestatisi per circa 15 anni, senza soluzione di continuità, su livelli così costantemente elevati da aver determinato, unitamente al cospicuo introito del TFR, una posizione di particolare agiatezza, rispetto alla quale non assume significativo rilievo il fatto che la La. abbia a sua volta introitato nel periodo in questione il pur non trascurabile ricavato della vendita di parte dei beni ereditari di cui era già divenuta proprietaria al momento della cessazione della convivenza, così migliorando la propria condizione economica.
Sulla base di tali considerazioni, ritiene la Corte del tutto condivisibile il convincimento espresso dal giudice di primo grado in merito alla sicura sussistenza dei presupposti per l’attribuzione a La.Sa. del diritto a percepire un assegno mensile a carico del coniuge divorziato, risultando evidente, sulla base delle più recenti emergenze documentali di cui si è detto, che, pur tenuto conto dell’obiettivo miglioramento delle condizioni economiche della richiedente negli ultimi anni, la sproporzione tra i redditi delle parti, già esistente all’epoca della cessazione della convivenza era perdurante all’epoca della pronuncia di divorzio e si è successivamente ancora accentuata, per la elevata consistenza delle somme che il Ma. ha continuato a percepire a titolo di compenso per gli incarichi citati.
Quanto alla determinazione in concreto di tale assegno, non vi è dubbio che, in applicazione dei principi giurisprudenziali sopra richiamati, debbono essere considerate sia le condizioni economiche delle parti all’epoca della cessazione della convivenza che quelle attuali, costituendo queste, per entrambe, l’esito di sviluppi coerenti e prevedibili della loro pregressa condizione economica: da un canto il miglioramento della condizione economica della La. è derivato dal ricavato della vendita dei beni di cui era già proprietaria al momento della cessazione della convivenza e dal parziale investimento in titoli delle relative somme e di quelle percepite dallo stesso Ma. per arretrati; dall’altro gli elevati introiti del Ma. negli anni successivi al pensionamento dall’ENEL derivano da incarichi di cui è evidente, per la loro natura e per il settore in cui operano le società che li hanno conferiti, la consequenzialità rispetto all’esperienza professionale particolarmente qualificata che il Ma. aveva maturato e ai contatti che aveva stabilito come dirigente dell’ENEL.
Pertanto, tenuto conto delle condizioni economiche delle parti che si sono sopra evidenziate e della vistosa e costante sproporzione tra i loro redditi, e avuto riguardo agli altri criteri indicati dall’art. 5 l. 898/70, e in particolare alla durata del matrimonio e della convivenza, protrattasi per più di 25 anni, e al maggior apporto alla cura del menage familiare che si presume abbia potuto dare la La., proprio in ragione del minore impegno richiestole dalla sua meno remunerata attività di insegnante, ritiene la Corte che l’entità dell’assegno di divorzio stabilita dal giudice di primo grado debba ritenersi congrua nella misura provvisoria già stabilita con la sentenza non definitiva di divorzio per il periodo tra il passaggio in giudicato di questa e la pronuncia della sentenza impugnata, dovendo invece a far data da questa essere elevata ad Euro 7.000,00 mensili, importo che appare maggiormente congruo con riguardo allo stabile ulteriore incremento del reddito del Ma. che risulta essere intervenuto da tale epoca.
Detto importo appare congruo anche con riguardo al venir meno con la sentenza impugnata dell’assegnazione della casa coniugale alla La.
Al riguardo osserva la Corte che, una volta venuta meno detta assegnazione, al beneficio economico che continua a derivare alla La. dal godimento esclusivo della casa familiare, ed al corrispondente sacrificio, suscettibile di quantificazione economica, dell’eguale diritto da parte del comproprietario non solo non può essere attribuita la natura di componente in natura dell’assegno di divorzio, ma neppure può essere dato rilievo in questa sede al fine di contenere la misura dell’assegno di divorzio. Detto godimento esclusivo infatti, proprio perché non trova più titolo nell’assegnazione della casa familiare, deve essere considerato alla stregua di mero esercizio del diritto al godimento del bene comune spettante a ogni comproprietario.
Ne consegue che le parti dovranno con le azioni proprie e in altra sede regolare i loro rapporti di dare – avere in qualità di comproprietari di un bene indiviso e di fatto goduto esclusivamente da uno solo di essi. E che sarà loro onere fare accertare il mutamento delle rispettive condizioni economiche che dovesse derivare dalla divisione del bene, per quanto di eventuale rilievo sull’entità dell’assegno di divorzio.
Egualmente ritiene la Corte non valutabile in questa sede il decremento di reddito che deriverà al Ma. dalla cessazione, in tutto o in parte, dagli incarichi di cui si è detto, non avendo egli dedotto alcun elemento certo al riguardo. Sarà pertanto suo onere fare accertare il mutamento delle sue condizioni economiche in conseguenza della cessazione degli incarichi ricoperti, quando questa sarà intervenuta.
Infine, non appare necessario ai fini della determinazione dell’entità dell’assegno di divorzio, alcun accertamento in merito alle condizioni di salute della La., essendo queste sufficientemente documentate in atti e tali da non comportare, tenuto conto della sua età e del risalente suo pensionamento, apprezzabili conseguenze sulla sua capacità di reddito. L’importo riconosciutole a titolo di assegno di divorzio si reputa, d’altro canto, tale da consentirle di sopportare agevolmente le spese di cura e assistenza derivanti dalle patologie riconosciute invalidanti.
Sulla base delle considerazioni tutte che precedono, la sentenza impugnata deve essere riformata come da dispositivo quanto all’entità dell’assegno di divorzio da corrispondersi all’appellante principale, mentre va confermata la pronuncia sulle spese del primo grado di giudizio, che appare conforme al disposto dell’art. 91 c.p.c., tenuto conto del comune interesse delle parti alla pronuncia sullo status e della loro parziale reciproca soccombenza.
Considerato l’esito favorevole all’appellante principale, le spese del presente grado di giudizio, liquidate come in dispositivo, debbono essere poste a carico del Ma.
P.Q.M.
Definitivamente decidendo sull’appello principale proposto da Sa.La. e sull’appello incidentale proposto da Sa.Ma. avverso la sentenza del Tribunale di Roma emessa in data 13.2/13.5.09, in parziale riforma della sentenza impugnata, determina in Euro 7.000,00 mensili l’assegno di divorzio in favore della La. a decorrere dalla pronuncia della sentenza impugnata, con rivalutazione secondo indici ISTAT a decorrere dall’anno successivo.
Conferma nel resto la sentenza impugnata.
Condanna Ma.Sa. alla refusione in favore di La.Sa. delle spese del presente grado di giudizio, che si liquidano in complessivi 4.800 Euro, di cui 3.000,00 per onorari, oltre spese forfetarie, IVA e CNA nella misura di legge.
Così deciso in Roma il 19 settembre 2012.
Depositata in Cancelleria il 15 febbraio 2013.