Qualora il fenomeno dannoso lamentato dal singolo condomino sui beni di proprietà esclusiva sia originato da difettosa realizzazione delle parti comuni dell’edificio (nella specie precaria situazione della muratura perimetrale adiacente il giardino condominiale e dei pozzetti), nei confronti di questi è responsabile, in via autonoma ex art. 2051 c.civ., il Condominio, che è tenuto, quale custode, ad eliminare le caratteristiche lesive insite nella cosa propria.

Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 11 giugno – 10 ottobre 2012, n. 17268
Presidente Triola – Relatore Falaschi
Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato il 12 aprile 2000 i coniugi G.M. e M.C. evocavano, dinanzi al Tribunale di Milano, il Condominio (…) di (…) n. 17 – Milano deducendo copiose infiltrazioni d’acqua nella loro cantina, per cui ne chiedevano la condanna all’esecuzione delle opere necessarie all’eliminazione degli inconvenienti lamentati, oltre al ristoro dei danni subiti.
Instaurato il contraddicono, nella resistenza del Condominio, che in via preliminare chiedeva ed otteneva di chiamare in giudizio la COOPIND s.c.r.l., la quale aveva a suo tempo assegnato gli appartamenti e che aveva riconosciuto i vizi lamentati, attivandosi in parte per eliminarli, costituita anche la terza chiamata CO.R.Ab. (Consorzio Regionale Cooperative di Abitazione Lombardia), incorporante per fusione la COOPIND, che eccepiva la decadenza degli attori e del Condominio dalla garanzia, nonché la maturata prescrizione, chiedendo ed ottenendo di chiamare a sua volta in causa la s.r.l. Ing. P.C., appaltatrice dell’edificio, la quale nel costituirsi eccepiva la propria carenza di legittimazione, nonché la decadenza e prescrizione ex art. 1669 c.c., oltre a chiedere ed ottenere di chiamare in causa anche l’arch. D.A., quale direttore dei lavori e l’Impresa Ing. A.A., quale società subappaltatrice delle opere di impermeabilizzazione, e quest’ultima nel costituirsi, a sua volta, chiedeva ed otteneva di chiamare in giudizio la R.A.S. e la WINTERTHUR per essere dalle stesse manlevata, le quali nel costituirsi sostenevano l’estraneità dell’evento dannoso al rischio assicurato, il Tribunale adito, rilevato che gli attori avevano concluso solo nei confronti del Condominio, rigettava la domanda attorea e dichiarava cessata la materia del contendere rispetto alle numerose domande di garanzia e di manleva dei terzi chiamati.
In virtù di appello interposto dai M-C., i quali invocavano l’applicazione dell’art. 2051 c.c., la Corte di appello di Milano, nella resistenza del condominio, integrato il contraddittorio nei confronti delle restanti parti, accoglieva il gravame e in riforma della sentenza impugnata condannava il Condominio ad eseguire le opere analiticamente descritte nella c.t.u.; respingeva la domanda attorea di risarcimento; respingeva la domanda di garanzia spiegata dal condominio nei confronti della COR.CA.B. (già COOPIND) per mancata denuncia dei vizi; respingeva anche la domanda in manleva spiegata dalla COR.CA.B. nei confronti della Impresa P. per essere la denuncia dei difetti de quibus oltre il termine di giorni 60 di cui all’art. 1667 c.c.; del pari veniva respinta la domanda in garanzia spiegata nei confronti della Impresa M. per decorrenza dei termini previsti dagli artt. 1667 e 1669 c.c., da cui discendeva anche il rigetto delle domande di garanzia da quest’ultima spiegata nei confronti delle assicurazioni RAS e WINTERTUR; infine, pure infondata veniva ritenuta la domanda spiegata dalla P. nei confronti dell’arch. \D, quale direttore dei lavori, non emergendo dalla documentazione in atti elementi idonei a fondare una responsabilità autonoma di detto professionista.
A sostegno della adottata decisione la corte distrettuale evidenziava che dal tenore della c.t.u., diversamente da quanto ritenuto dal giudice di prime cure, andava ravvisata la responsabilità del Condominio ai sensi dell’art. 2051 c.c. dovendosi il danno ritenere cagionato non da un comportamento del custode, ma dalla cosa in custodia, ossia nell’ambito del dinamismo connaturale alla cosa medesima, responsabilità superabile solo dalla prova liberatoria avente ad oggetto il superamento della presunzione di colpa ovvero il caso fortuito.
Avverso la indicata sentenza ha proposto ricorso per cassazione il Condominio, che risulta articolato su sette motivi, al quale hanno resistito i coniugi M-C e l’AURORA ASSICURAZIONI con separati controricorsi.
Il Condominio ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2697, comma 1, c.c. in relazione all’art. 2051 c.c. e agli artt. 115, comma 1, 116, 163, comma 3, n. 5, c.p.c., nonché il vizio di motivazione per avere la corte di merito accolto la domanda attorea pur in assenza di prova, in entrambi i gradi di giudizio, delle continue infiltrazioni e dei continui allagamenti esistenti nella cantina di loro proprietà, come emergeva dalla stessa consulenza tecnica di ufficio, di cui il giudice del gravame avrebbe estrapolato alcune frasi per basare il suo convincimento. Conclude il motivo il seguente quesito: “Dica la Suprema Corte di Cassazione se vi è stata violazione o falsa applicazione della norma di diritto ex art. 360, comma 1, n. 3 s/o insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo del giudizio ex art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. in relazione: a) al violato art. 2697, comma 1, c.c., disapplicato dalla Corte di appello per omesso onere della prova da parte degli attori – appellanti M-C in entrambi i gradi del giudizio di merito; b) al violato art. 2051 c.c., erroneamente applicato dalla Corte di appello, nonostante l’inesistenza del “danno cagionato” alle cose in custodia e nonostante gli eseguiti interventi del condominio nel corso del 1999; c) al violato art. 155, comma 1, c.p.c. per avere la Corte di appello fondato la sua decisione su prove inesistenti e mai proposte dagli attori; d) al violato art. 166 c.p.c. per avere la Corte di appello valutato senza alcun prudente apprezzamento la consulenza tecnica d’ufficio; e) al violato art. 163, comma 3, n. 5 c.p.c. per avere la Corte di appello pronunciato la sentenza appellata stante l’omessa specifica indicazione dei mezzi di prova e l’omessa produzione documentale da parte degli attori appellanti”.
Con il secondo motivo viene dedotta la omessa pronuncia su espressa domanda del Condominio con violazione dell’art. 112 c.p.c., nonché il vizio di motivazione per avere la corte di merito evidenziato che il ricorrente fin dalle sue prime difese aveva sostenuto la carenza di legittimazione passiva, ma poi non aveva speso alcuna argomentazione sul punto. In ragione di ciò, il ricorrente formula il seguente quesito di diritto: “Dica la Suprema Corte di Cassazione se vi è stata violazione o falsa applicazione della norma di diritto ex art. 360, comma 1, n. 3 e/o omessa motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio di cui all’art. 360, comma 1, n. 5, in relazione al violato art. 112 c.p.c. avendo la corte di appello omesso di motivare sulla domanda formulata dal Condominio di via (…) di (…) n. 17 di Milano e relativa atta carenza di legittimazione passiva”.
Con il terzo motivo viene denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., degli arti 115 e 116 c.p.c., anche per vizio di motivazione per avere la corte di merito riconosciuto [a responsabilità del Condominio sulla base della relazione peritale, nonostante questa non costituisca prova in senso tecnico.
Il ricorrente conclude formulando il seguente quesito di diritto: “Dica la Suprema Corte di Cassazione se vi sia stata violazione o falsa applicazione della norma di diritto ex art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. e/o insufficiente motivazione su un punto decisivo del giudizio ex art. 360, comma 1, n. 5 in relazione a) al violato art. 2697 c.c. per avere la corte di appello considerato la relazione del c.t.u. quale prova documentale a favore degli attori, nonché per avere mal valutato ed interpretato il reale contenuto letterale della menzionata relazione del c.t.u.; b) al violato art. 115 c.p.c. per avere la corte di appello fondato la sua decisione su prove inesistenti e mai proposte dagli attori; c) al violato art. 116 c.p.c. per avere la corte di appello valutato senza alcun prudente apprezzamento la consulenza tecnica di ufficio e l’inesistenza delle prove attoree”.
Con il quarto motivo viene dedotta la omessa pronuncia su una espressa domanda degli appellanti, con violazione dell’art. 112 c.p.c, nonché vizio di motivazione, relativa all’ammissione della prova di appello dagli stessi dedotta solo nell’atto di appello, il motivo culmina nel seguente quesito di diritto: “Dica la Suprema Corte di Cassazione se vi sia stata violazione o falsa applicazione ella norma di diritto ex art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. e/o insufficiente motivazione su un punto decisivo del giudizio ex art. 360, comma 1, n. 5 in relazione al violato art. 112 c.p.c. avendo la corte di appello omesso di motivare sulla domanda di ammissione del capito di prova articolato dai coniugi appellanti nel giudizio di secondo grado”.
Con il quinto motivo nel denunciare la violazione dell’art. 112 c.p.c., il ricorrente insiste nella censura sull’interpretazione della relazione peritale adottata dalla corte di merito, giacché ad avviso del Condominio il c.t.u. avrebbe accertato che le infiltrazioni non erano attuali, né copiose ed i rimedi prospettati erano solo consigliati, terminando con il seguente quesito: “Dica la Suprema Corte di Cassazione se vi sia stata violazione o falsa applicazione della norma di diritto ex art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. in relazione ai violato art. 112 c.p.c. essendosi la corte di appello pronunciata oltre i limiti della domanda degli appellati nel giudizio di secondo grado, in particolare per avere gli appellanti domandato la condanna del convenuto sulla base e in conseguenza di un accertamento di fatti rivelatisi insussistenti e per essersi, ciononostante, la corte di appello ugualmente pronunciatasi sulla domanda di condanna”.
Con il sesto motivo viene dedotta la violazione e falsa applicazione delle norme di diritto di cui agli artt. 2043 e 2051 c.c. e questo il quesito conclusivo: “Dica la Suprema Corte di Cassazione se vi sia stata violazione o falsa applicazione della norma di diritto ex art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., in relazione ai violati artt. 2043 e 2051 c.c. avendo la corte di appello condannato a un tacere sulla base di una mera eventualità di danno futuro, in assenza di una danno attuale, anzi con la prova della inesistenza di un danno”.
Con il settimo ed ultimo motivo viene dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2051 c.c., nonché dell’art. 112 c.p.c., anche per vizio di motivazione per avere la corte di merito condannato il Condominio ad un tacere per modificare lo stato dei luoghi, onde prevenire eventuali danni futuri, mentre il giudice del gravame ha fondato tutta la motivazione sulla nozione di responsabilità oggettiva, che non può sussistere per danni non ancora verificatisi. Questo il quesito conclusivo: “Dica la Suprema Corte di Cassazione se vi sia stata violazione o falsa applicazione della norma di diritto di cui all’art. 2051 c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., nonché violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c., per motivazione contraddittoria, per avere la Corte di appello di Milano erroneamente applicato la norma di cui all’art. 2051 c.c. relativamente alla responsabilità oggettiva, e non la regola generale che impone la sussistenza quanto meno dell’elemento soggettivo della colpa a una fattispecie nella quale non è stato ravvisato alcun danno attuale; inoltre per avere la corte di appello di Milano accolto la domanda svolta ai sensi dell’art. 2051 c.c. nonostante non fosse presente l’elemento oggettivo del danno attuale”, essendosi la corte di appello pronunciata oltre i limiti della domanda degli appellati nel giudizio di secondo grado, in particolare per avere gli appellanti domandato la condanna del convenuto sulla base e in conseguenza di un accertamento di fatti rivelatisi insussistenti e per essersi, ciononostante, la corte di appello ugualmente pronunciatasi sulla domanda di condanna”.
È pregiudiziale l’esame del secondo motivo che attiene alla legittimazione del Condominio.
La responsabilità del condominio è stata in entrambi i gradi prospettata esclusivamente in relazione alla presenza di vizi che gli attori avevano ab origine ricondotto a difetti di progettazione e realizzazione del manufatto edilizio da parte del costruttore.
Nell’individuare la norma applicabile al caso di specie, sia il giudice di primo grado sia quello di secondo grado, hanno sussunto la fattispecie nell’ambito applicativo dell’art. 2051 c.c., pur traendone i due giudici conseguenze diverse.
Una volta chiaramente esposto che il fatto generatore del danno era da individuarsi nei vizi di progettazione ed esecuzione imputabili al costruttore, non altra situazione giuridica soggettiva che quella della proprietà comune delle parti dell’edificio, i cui vizi ingeneravano il danno, poteva essere stata dedotta dagli attori a fondamento della pretesa fatta valere nei confronti del condominio, per cui non sussiste la lamentata violazione dell’art. 112 c.p.c.. Del resto la corte di merito si è correttamente attenuta al consolidato principio affermato da questa corte secondo cui qualora il fenomeno dannoso lamentato dal singolo condomino sui beni di proprietà esclusiva sia originato da difettosa realizzazione delle parti comuni dell’edificio (nella specie precaria situazione della muratura perimetrale adiacente il giardino condominiale e dei pozzetti), nei confronti di questi è responsabile, in via autonoma ex art. 2051 c.civ., il Condominio, che è tenuto, quale custode, ad eliminare le caratteristiche lesive insite nella cosa propria (cfr. Cass. 12 luglio 2011 n. 15291; Cass. 15 aprile 1999 n. 3753; Cass. 21 giugno 1993 n. 6856; Cass. 25 marzo 1991 n. 3209; Cass. 9 maggio 1988 n.3405).
Non si tratta di una responsabilità a titolo derivativo (il Condominio, pur successore a titolo particolare del costruttore venditore, non subentra nella sua personale responsabilità, legata alla sua specifica attività e fondata sull’art. 1669 c.civ.), bensì di autonoma fonte di responsabilità ex art. 2051 c.civ. (cfr. Cass. 6856/93, cit.). La doglianza è, dunque, infondata.
Del pari non è accoglibile la prima censura con il quale viene lamentato il mancato assolvimento dell’onere probatorio gravante sui condomini resistenti.
La Corte d’appello di Milano ha accertato che c’erano delle macchie di umidità nella cantina dei condomini controricorrenti, i lavori da eseguire per porre ad esse rimedio e la causa che le ha prodotte, facendo proprio quanto ha ritenuto che il consulente tecnico di ufficio aveva esposto al riguardo nella sua relazione.
Il ricorrente sostiene in buona sostanza che in tale relazione il consulente tecnico ha affermato fatti diversi da quelli che la corte territoriale in essa ha letto, estrapolandone alcune frasi per basare il suo convincimento; denunzia quindi non una errata valutazione dei fatti accertati dal consulente, ma il travisamento di quanto da questi riferito.
Tale travisamento, se davvero è stato commesso, costituisce motivo di revocazione, non di ricorso per cassazione (v., tra le tante, Cass. 13 gennaio 1990 n. 92; Cass. 22 febbraio 1999 n. 1477). Anche se si volesse prescindere dall’osservazione che precede, resterebbe comunque insuperabile il rilevo che il Condominio ricorrente ha certamente inteso censurare gli apprezzamenti di merito espressi dada corte distrettuale con argomentazioni esaustive e prive di vizi logici e giuridici, dopo avere accertato la presenza di macchie di umidità nella cantina dei condomini resistenti.
Pure privo di pregio è da ritenere il terzo motivo che denuncia cattivo governo delle fonti di prova, considerando tale anche la consulenza tecnica di ufficio.
L’art. 61 c.p.c. consente al giudice di farsi assistere, per il compimento di singoli atti o per tutto il processo, da uno o più consulenti di particolare competenza tecnica. Il consulente è dunque un ausiliario tecnico del giudice e lo assiste nei suoi compiti di acquisizione e di vantazione delle prove. Come è stato detto, non si pone di fronte al giudice, ma collabora con esso, accanto ad esso, per assisterlo e consigliarlo nel campo della propria particolare esperienza. Il giudice può affidare al consulente tecnico non solo l’incarico di valutare i fatti da lui stesso accertati o dati per esistenti (consulente deducente), ma anche quello di accertare i fatti stessi (consulente percipiente).
Nel primo caso la consulenza presuppone l’avvenuto espletamento dei mezzi di prova e ha per oggetto la valutazione di fatti i cui elementi sono già stati completamente provati dalle parti; nel secondo caso la consulenza può costituire essa stessa fonte oggettiva di prova (cfr Cass. 1 ottobre 1999 n. 10871; Cass. 31 marzo 1990 n. 2629; Cass. 4 aprile 1989 n. 1620; Cass. 19 aprile 1988 n. 3064).
Naturalmente ciò non significa che le parti possano sottrarsi all’onere probatorio e rimettere l’accertamento dei propri diritti all’attività del consulente, è necessario, invece, che la parte deduca quanto meno il fatto che pone a fondamento del proprio diritto; che il giudice ritenga che il fatto sia possibile, rilevante e tale da lasciare tracce accertabili o, comunque, da poter essere ricostruito dal consulente; che l’accertamento richieda cognizioni tecniche che il giudice non possiede; che il consulente indaghi sui fatti prospettati dalle parti e non su fatti sostanzialmente diversi.
Nel caso in esame il giudice ha affidato al c.t.u. l’incarico di accertare: a) l’origine, la natura e l’entità dei fenomeni dannosi lamentati dagli attori; b) le cause che li hanno prodotti, con indicazione del nesso di causalità con i vizi riscontrati; c) l’entità dei danni subiti, i rimedi per la loro eliminazione e per il ripristino.
La consulenza ha avuto dunque per oggetto l’accertamento di fatti che presuppongono particolari competenze tecnico – costruttive che il giudice normalmente non ha; e pertanto essa deve ritenersi perfettamente ammissibile e regolarmente espletata.
Quanto ai quesiti di cui alle lett. b) e c), riproducendo gli stessi le circostanze di cui al primo motivo, vale quanto sopra esposto.
Non è accoglibile neanche il quarto motivo.
Per consolidato orientamento di questa corte la denuncia di vizi di attività del giudice non tutela l’interesse all’astratta regolarità dell’attività giudiziaria, ma garantisce soltanto l’eliminazione del pregiudizio concretamente subito dal diritto di difesa della parte in dipendenza della denunciata violazione. Sicché, non potendosi configurare un generico ed astratto diritto alla regolarità del processo fine a se stesso, è inammissibile l’impugnazione con la quale si lamenti un mero vizio del processo, senza prospettare a fondamento dell’impugnazione stessa le ragioni per le quali tale violazione abbia comportato l’ingiustizia del processo stesso, causata dall’impossibilità di difendersi a tutela di quei diritti o di quelle posizioni giuridicamente protette (cfr Cass. 19 agosto 2003 n. 12122).
Nella specie il ricorrente lamenta meri vizi formali del procedimento, relativi ad omessa pronuncia su espressa richiesta di prove articolate peraltro dagli appellanti (odierni resistenti), senza prospettare alcuna lesione al proprio diritto di difesa, con la conseguenza che l’addotta violazione non acquista rilievo idoneo a determinare l’annullamento della sentenza impugnata (cfr Cass. 20 novembre 2009 n. 24532; Cass. 28 gennaio 2005, n. 1820; Cass. 8 febbraio 2003, n. 1915; Cass. 14 febbraio 2000, n. 1619), non essendo stato esposto (ritualmente e specificamente) che l’asserito vizio (omessa pronuncia su prove articolate dai controricorrenti, che si assumono tardive) abbia inciso sulla determinazione della competenza, sul contraddittorio, sui diritti della difesa o sul regime delle prove.
L’infondatezza del quinto motivo discende dalla considerazione che la domanda attorea è stata accolta nei limiti in cui la consulenza tecnica di ufficio ne ha accertato la sua fondatezza, argomentando proprio dai rilievi effettuati dall’ausiliario del giudice; mentre quella del sesto è correlata al rilievo che la critica si appunta sulla valutazione di merito della corte di appello, in sé insindacabile in questa sede e comunque fondata su accertamenti tecnici, che hanno verificato l’esistenza di macchie di umidità e del cui risultato si da conto in sentenza.
È da rigettare, infine, anche il settimo motivo posto che, per un verso non si rilevano né le violazioni di legge alle quali è fatto riferimento (per quanto già esposto ai motivi uno e due) né i vizi della motivazione e che, per altro verso, attraverso quegli stessi motivi la parte tende inammissibilmente ad ottenere da questa corte di legittimità una ulteriore valutazione del merito della causa.
Il ricorso va conclusivamente respinto.
Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte, rigetta il ricorso e condanna il Condominio ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di Cassazione, che liquida per ciascuna parte resistente in complessivi Euro 2.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori, come per legge.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *