Le vedute, implicando il diritto ad una zona di rispetto, che si estende per tre metri in direzione orizzontale della parte più esterna della veduta e per tre metri in verticale rispetto al piano corrispondente alla soglia della veduta medesima, comporta che ogni costruzione che venga a cadere in questa zona è illegale e va rimossa.
Inoltre, per effetto delle limitazioni previste dall’art. 907 c.c., a carico del fondo su cui si esercita una veduta, sia che le vedute siano state aperte jure servitutis, sia che vengano esercitate jure proprietatis, deve osservarsi un distacco di metri tre in linea orizzontale dalla veduta diretta, ed eventualmente anche dai lati della finestra da cui si esercita la veduta obliqua, e, in stretta correlazione strumentale con le limitazioni cui tendono i primi due commi dell’art. 907 cit., deve osservarsi analogo distacco anche in senso verticale per una profondità di tre metri al di sotto della soglia della veduta .

Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 21 febbraio – 11 giugno 2013, n. 14652
Presidente Felicetti – Relatore Falaschi
Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato il 13 marzo 1997 C.C. e I..G. evocavano, dinanzi al Tribunale di Napoli, M.R..B. e premesso di essere proprietari di alcune unità immobiliari site in (omissis) , inserite nello stesso complesso immobiliare nel quale vi erano unità immobiliari di proprietà della convenuta, lamentavano che quest’ultima aveva realizzato una tettoia ed un vano sottostante le finestre di proprietà degli attori in violazione dell’art. 907, ult. comma, c.c., con arbitraria utilizzazione del muro perimetrale comune per l’aggravio di carico per la struttura portante dell’edificio e con lesione del decoro architettonico del fabbricato, nonché un illegittimo mutamento di destinazione dei locali sottostanti la proprietà degli attori (cantinole, prive della necessaria licenza di abitabilità, trasformate in unità abitative, con opere che avevano intaccato la statica e l’estetica del fabbricato, con abusiva costituzione di vedute nel cortile e nello spazio annesso alla proprietà degli attori trasformando gli originari punti luce in vere e proprie finestre a mezzo dell’eliminazione delle grate esistenti, con sostituzione dei vetri opachi ed ermeticamente chiusi con portellini di vetro chiaro apribili dall’interno), oltre ad una arbitraria chiusura del varco di accesso dal civico n. … di via … e con apertura di vedute nel muro di confine affaccianti sul terreno di proprietà degli attori. Tanto premesso, chiedevano la condanna della B. all’eliminazione delle dedotte opere ed alla consegna delle chiavi del cancello di accesso al predetto fondo o alla realizzazione, ove possibile, di altro accesso alternativo, oltre al risarcimento dei danni.
Instauratosi il contraddittorio, nella resistenza della convenuta, la quale eccepiva che la tettoia ed il casotto esistevano da data anteriore al 1951 ed erano state di recente solo ristrutturate, quanto al mutamento di destinazione invocava il classamento del cespite operato dall’U.T.E. sin dalla istituzione del N.C.E.U. divenuto esecutivo dal 1982 e contestava di avere mai praticato alcuna apertura né modifica delle stesse, e, di converso, a determinare la chiusura e trasformazione peggiorativa di quelle da sempre esistenti era stato l’abusivismo edilizio praticato dagli attori, per cui spiegava riconvenzionale per ottenere la demolizione delle abusive costruzioni, limitatamente a quelle lesive dei suoi diritti, oltre alla corresponsione della quota di loro spettanza dei lavori di ristrutturazione del tratto di tromba di scala in comunione e per l’incanalamento delle acque pluviali delle terrazze degli attori, nonché la rimozione delle varie scalinate realizzate dagli attori che avevano reso intercomunicante l’originaria consistenza della terra di copertura dei due appartamenti dei C. – G. con l’intera consistenza immobiliare di via (omissis) per illegittimo aggravamento della servitù di passaggio ed accrescimento del diritto di comproprietà sul tratto di tromba della scala, il Tribunale adito, espletata istruttoria, anche con c.t.u., accoglieva parzialmente la domanda attorea, condannando la convenuta ad eliminare il manufatto edificato nel cortile sino a raggiungere la distanza di mt. 3.00, misurata a norma dell’ari 907 c.c. dalla veduta esercitata dalla soprastante finestra dell’appartamento attoreo, respinte integralmente le domande riconvenzionali.
In virtù di rituale appello interposto dalla B. , con il quale lamentava che il giudice di prime cure aveva omesso di rilevare che l’apertura dalla quale i C. – G. assumevano di esercitare la veduta per lo spessore della muratura non consentiva una comoda inspectio e prospectio ed il preteso nuovo ingombro era stato realizzato in aderenza al fabbricato e non già appoggiato al muro in cui si apriva la veduta, ingombro che era in ogni caso esistito dal 12.12.1942, insistendo nella domanda riconvenzionale di demolizione degli abusi edilizi, in quella di corresponsione dei costi, pro quota, dei lavori relativi a beni comuni e in quella di eliminazione delle varie scale di collegamento delle plurime proprietà degli appellati, la Corte di appello di Napoli, nella resistenza degli originari attori, che sottolineavano trattarsi di edificio condominiale, per cui non erano inoperanti le norme in tema di distanze legali, non provata la sussistenza dei presupposti di cui all’art. 1135 c.c. con riferimento alle domande di rimborso, spiegato appello incidentale condizionato all’accoglimento di quello principale in riferimento al manufatto posto a distanza illegittima, deducendo che era stato praticato un taglio nella muratura portante comune dell’intero edificio per creare un varco di accesso direttamente dall’interno dei locali terranei, nonché appello incidentale relativamente alle ulteriori domande introdotte in primo grado, rigettava l’appello principale e, in parziale accoglimento di quello incidentale e in parziale riforma della decisione del giudice di primo grado, condannava la B. alla chiusura anche del finestrino ubicato a circa 20 cm. dalla quota di calpestio
del lastrico solare degli appellanti incidentali, confermata per il resto la sentenza impugnata.
A sostegno della decisione la corte partenopea – premessa la formazione del giudicato interno in relazione al rigetto delle domande riconvenzionali esperite dalla appellante aventi ad oggetto la condanna alla rimozione delle opere effettuate dagli appellati (numericamente individuate come quinta, sesta, settima ed ottava) – quanto alla disposta demolizione del manufatto di proprietà della B. per violazione della veduta goduta dagli appellati ex art. 907 c.c., evidenziava che la costruzione era posta a distanza inferiore a quella descritta dalla predetta norma, consentendo, peraltro, la comoda inspectio e prospectio, essendo del tutto irrilevante che la realizzazione del manufatto fosse in aderenza al fabbricato principale, senza alcuna interferenza con la struttura portante dell’edificio, giacché in ipotesi di nuova costruzione l’obbligo della distanza in verticale di 3 metri dalla soglia delle vedute esistenti nel fabbricato del vicino andava osservato in ogni caso, senza alcuna distinzione tra costruzioni in appoggio e costruzioni in aderenza. Né aveva trovato riscontro probatorio l’eccepita usucapione del diritto a mantenere la costruzione per essere l’ingombro della tettoia e del water closed risalente al 1942, in quanto gli atti di provenienza (nota di trascrizione del 20.10.1951) sebbene menzionano la tettoria, non ne indicano né la precisa ubicazione, né le dimensioni, come rilevato dallo stesso c.t.u., e di essa non vi era traccia nella foto aerea rilasciata dal terzo ALI-SUD di Ercolano estratta dal volo del 24.2.1985.
Aggiungeva, quanto alle domande riconvenzionali di demolizione delle “abusive costruzioni” realizzate dagli appellati, di cui si lamentava, in particolare, un illegittimo “frazionamento”, nonché l’accrescimento di alcune abusive consistenze immobiliari senza il rilascio delle concessioni in sanatoria, che non risultava dedotta la violazione delle distanze prescritte dal codice civile o dagli strumenti urbanistici locali, le uniche doglianze che consentivano, in caso di loro violazione nell’ambito dei rapporti interprivatistici, la richiesta di riduzione in pristino e pertanto andava confermata la decisione del giudice di primo grado. Di converso, la questione del mancato rispetto delle prescrizioni dettate dal Regolamento edilizio del Comune di Ercolano risultavano introdotte per la prima volta in appello, e cadevano sotto il divieto di cui all’art. 345 c.p.c., involgendo accertamenti anche in fatto del tutto diversi da quelli introdotti avanti al Tribunale. Pure non accoglibili apparivano le riconvenzionali di rimborso pro quota degli importi erogati dalla B. per gli interventi di ristrutturazione della scala comune del fabbricato e per la realizzazione di opere di canalizzazione delle acque meteoriche delle coperture del fabbricato medesimo non avendo dimostrato l’appellante, quanto ai lavori della scale, l’asserito accordo preventivo delle parti e quanto ai lavori di canalizzazione, risultava non provato il presupposto dell’urgenza ex art. 1134 c.c..
Quanto, infine, alla domanda di rimozione delle varie scalinate realizzate dagli appellati sulla loro proprietà esclusiva, pacifico che la servitù di passaggio era sempre stata finalizzata all’accesso sia al primo piano sia al secondo piano sia al lastrico di copertura di proprietà degli appellati, non ne veniva rilevato l’aggravamento, irrilevanti le trasformazioni interne delle proprietà C. – G. , anche in ampliamento. Quanto al lamentato accrescimento del diritto di comproprietà sulla tromba delle scale comune, la trasformazione posta in essere della superficie o della volumetria poteva comportare solo una rettifica delle tabelle millesimali e non il diritto al ripristino dello status quo ante, sempre che non venissero in rilievo problemi di staticità o altre specifiche violazioni.
Passando all’esame dell’appello incidentale, veniva rilevato che il mutamento di destinazione della proprietà esclusiva della B. non aveva pregiudicato gli appellati, non suffragate dalla c.t.u. le doglianze relative alla statica ed alla estetica del fabbricato. Aggiungeva che pure non condivisibile apparivano le lamentele circa la trasformazione degli originari punti luce in vere e proprie finestre, giacché dalla espletata c.t.u. era emerso in modo inconfutabile che le aperture esistenti nella proprietà B. sita al piano terra avevano conservato le caratteristiche di luci. Concludeva che quanto alla domanda di eliminazione di due finestrini rettangolari aperti dalla B. nel muro di confine e affaccianti nel terrazzo degli appellanti incidentali, destinate a fornire luce ed aria ai restrostanti locali della appellante principale, mentre la prima apertura affacciava in un cavedio interposto tra le proprietà, per cui rientrava nel lecito uso della cosa comune ex art. 1102 c.c., a prescindere dal momento in cui fosse stata realizzata, l’altra, trovandosi a circa 20 cm. dalla quota di calpestio del lastrico di proprietà dei C. – G. , ne andava disposta la chiusura, non essendovi prova sicura della sua preesistenza anteriormente al 1982, come evidenziato dal c.t.u., in quanto incidendo sul muro comune nessuno dei proprietari poteva aprire luci e vendute senza il consenso scritto dell’altro. Infine, la domanda relativa all’accesso al civico n. … di via …, dimostrata la fruibilità del passaggio dal civico n. 20, che per i coniugi C. – G. comportava anche la percorrenza di un tratto più breve e non meno comodo rispetto all’uso del civico n. XX, per cui trovava applicazione l’art. 1068 c.c..
Avverso la sentenza della Corte di appello di Napoli ha proposto ricorso per cassazione la B. , articolato su due motivi, cui hanno resistito i coniugi C. – G. con controricorso, presentato dagli stessi anche ricorso incidentale affidato a tre motivi.
Fissata pubblica udienza al 16.3.2012, la causa veniva rinviata a nuovo ruolo per astensione del difensore della ricorrente.
Entrambe le parti hanno presentato memorie illustrative.
Motivi della decisione
Preliminarmente, deve respingersi l’eccezione, sollevata dai controricorrenti nella memoria difensiva, di inammissibilità del ricorso principale per difetto di autosufficienza, nonché per deduzione esclusiva di questioni di fatto.
Il ricorso si basa, infatti, su una chiara ed esauriente ricostruzione della vicenda sostanziale e della vicenda processuale, ricostruzione che è sostanzialmente pacifica tra le parti, per la individuazione e la verifica della quale non vi è quindi bisogno di esame di alcuna documentazione.
Inoltre, le censure mosse dalla B. alla decisione impugnata – diversamente da quanto asserito dai coniugi C. -G. – non involgono esclusivamente il vizio di motivazione, ma lamentano anche la violazione di legge, per quanto di seguito si esporrà.
Ciò precisato, con il primo motivo del ricorso principale la B. lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 907 e ss., 1153 e ss. c.c., nonché degli artt. 99, 112 e 115 c.p.c. e dell’art. 2697 c.c., oltre ad omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, per avere la corte di merito nel rigettare l’appello dalla stessa proposto in ordine alla demolizione del manufatto asseritamente realizzato dalla ricorrente in violazione della veduta goduta dai controricorrenti, in quanto posto a distanza inferiore a quella prescritta dall’art. 907 c.c. rispetto alla soglia della finestra soprastante dell’appartamento dei coniugi C. – G. , non tenuto conto dell’affermazione del c.t.u. secondo cui “…la tettoia/costruzione di proprietà dell’appellante esistente nella zona sottostante è irrilevante ai fini dell’intera visuale e non pregiudica a parere dello scrivente la comoda veduta della finestra dell’appellato” (pag. 13 della relazione). Osserva, altresì, la B. che la disposizione che si assume violata avendo la finalità della salvaguardia dell’igiene e della sicurezza pubblica, così da assicurare aria e luce in quantità sufficiente agli immobili, non trovando nella specie alcuna situazione limitativa della veduta, per come esplicitato lo stato dei luoghi dal c.t.u., non troverebbe applicazione. Inoltre trattandosi pur sempre di una tettoia, andava esclusa l’applicabilità nell’ambito dei rapporti di vicinato dell’art. 907 c.c.. Contesta, infine, la ricorrente l’assunto del giudice di merito secondo cui non sarebbe stata dimostrata l’intervenuta usucapione ventennale del diritto di mantenere nello stato e nella posizione attuali la tettoia all’uopo fornendo elenco di numerosa documentazione allegata agli atti. La censura è inammissibilmente formulata.
Il motivo è innanzitutto inammissibile nella parte in cui, con un sollecitato, nuovo esame dei dati di causa, sostiene la erroneità – id est: la non condivisione – del ragionamento logico seguito dal giudice di merito e la insufficienza dello stesso, chiedendo al giudice di legittimità una nuova valutazione di merito, sia per quanto attiene all’accertamento dello stato dei luoghi sia in ordine alla dimostrazione dell’eccepita usucapione, mentre alla Corte di Cassazione è consentito solo il controllo della logicità e congruità della motivazione, sulla base della specifica indicazione delle risultanze, ritualmente già acquisite in causa, asseritamene trascurate od omesse.
Va, inoltre, rilevato quanto alla denuncia di violazione di legge, che la Corte di appello ha rigettato il gravame sulla base di una ratio decidendi assorbente, costituita dalla circostanza che la tettoia realizzata dalla B. costituiva violazione della veduta goduta dalle controparti ex art. 907 c.c., come emergeva in modo inconfutabile dalla comodità della inspectio e della prospectio esercitabili dalla apertura, di proprietà degli appellati, ubicata nel vano adibito a salotto. Questa ratio decidendi è rimasta praticamente priva di censura, poiché il ricorso si limita a dedurre che la disposizione che si assume violata avrebbe la sola finalità della salvaguardia dell’igiene e della sicurezza pubblica, per assicurare aria e luce in quantità sufficiente agli immobili, circostanza che non sarebbe stata esaminata dalla corte di merito. In tal modo rimane confermato che la tettoia della B. è limitativa della veduta goduta dai coniugi C. – G. dalla finestra del loro salotto, non essendo stata la ratio decidendi della statuizione attaccata (conforme alla giurisprudenza di legittimità: v. Cass. 5 luglio 2004 n. 12287).
Per completezza si osserva che questa Corte in tema di interpretazione dell’art. 907 c.c. ha affermato che “le vedute, implicando il diritto ad una zona di rispetto, che si estende per tre metri in direzione orizzontale della parte più esterna della veduta e per tre metri in verticale rispetto al piano corrispondente alla soglia della veduta medesima, comporta che ogni costruzione che venga a cadere in questa zona è illegale e va rimossa” (Cass. n. 4389 del 2009; Cass. n. 5390 del 1999; Cass. n. 15381 del 2000). Inoltre, “per effetto delle limitazioni previste dall’art. 907 c.c., a carico del fondo su cui si esercita una veduta, sia che le vedute siano state aperte jure servitutis, sia che vengano esercitate jure proprietatis, deve osservarsi un distacco di metri tre in linea orizzontale dalla veduta diretta, ed eventualmente anche dai lati della finestra da cui si esercita la veduta obliqua, e, in stretta correlazione strumentale con le limitazioni cui tendono i primi due commi dell’art. 907 cit., deve osservarsi analogo distacco anche in senso verticale per una profondità di tre metri al di sotto della soglia della veduta” (Cass. n. 45 del 1992).
Tali pronunce muovono proprio dalla premessa che al titolare della veduta non siano riservati i soli benefici dell’aria e della luce, giacché la veduta consiste nell’inspicere e nel prospicere in alienum e la utilitas da essa apportata all’immobile in cui è aperta, è la completa e piena visione del fondo servente (Cass. n. 11217 del 1991). Il che comporta che la Corte di appello di Napoli ha fatto un buon governo dei principi sopra affermati ritenendo che “in ipotesi di nuova costruzione, l’obbligo della distanza in verticale di tre metri dalla soglia delle vedute esistenti nel fabbricato del vicino va osservato in ogni caso, senza alcuna distinzione tra costruzioni in appoggio e costruzioni in aderenza” (così Cass. n. 4976 del 2000; Cass. n. 22954 del 2011), ponendo l’art. 907 c.c. un divieto assoluto, la cui violazione si realizza in forza del mero fatto che la costruzione è a distanza inferiore a quella stabilita, enucleando la norma codicistica in favore del titolare della veduta un diritto perfetto al rispetto della distanza legale da parte della costruzione del vicino, senza introdurre ulteriori condizioni (in tal senso v. Cass. n. 12033 del 2011).
Con il secondo motivo viene denunciata la violazione e falsa applicazione degli artt. 917 e ss. c.c. e dell’ari 345 c.p.c., nonché il vizio di motivazione per avere la corte di merito rigettato la riconvenzionale formulata avente ad oggetto la demolizione delle opere abusive realizzate dai controresistenti perché “il mancato rispetto delle prescrizioni dettate dal Regolamento edilizio del Comune di … in tema di distanze dai confini e tra i fabbricati” avrebbe costituito una causa petendi nuova rispetto alla originaria richiesta di demolizione, introdotta dalla difesa della B. solo a seguito dei rilievi officiosi svolti dal c.t.u..
Il motivo è palesemente infondato.
Dallo stesso ricorso emerge evidente che il giudice di appello non ha tenuto conto della domanda riconvenzionale di demolizione sotto il profilo della violazione delle prescrizioni del Regolamento edilizio, formulata in appello – ed in ciò incorrendo, ad avviso della ricorrente, nel vizio di omessa motivazione – proprio perché si trattava di questione nuova, né la B. , pur emergendo dalla sentenza di appello che l’appellante aveva denunciato in primo grado la sola abusività delle opere realizzate dagli appellati, allega perché la corte distrettuale avrebbe errato nell’interpretare la domanda nel senso esposto.
Passando all’esame del ricorso incidentale, con il primo motivo i coniugi C. – G. lamentano la violazione e falsa applicazione di norme con riferimento alla legge 28.1.1977 n. 10, alla LR. 5.12.1977 n. 56, all’art. 31 legge n. 1150/1942 e della legge n. 765/1967, nonché dell’art. 2934 e ss. c.c. ed il vizio di motivazione per avere la corte di merito rigettato la domanda di accertamento della illegittima ed abusiva destinazione dei locali cantinati di proprietà della B. nonostante dalla consulenza tecnica emergesse evidente che il cespite destinato ad uso abitativo non avesse i requisiti richiesti dalla legge, con opere che intaccano la statica e l’estetica del fabbricato, oltre che con l’abusiva costituzione di servitù di vedute nel cortile e nello spazio annesso alla proprietà dei ricorrenti incidentali.
Osservano i coniugi C. – G. che con la statuizione la corte di merito avrebbe violato il principio di diritto secondo cui il mutamento di destinazione d’uso della proprietà esclusiva non può essere realizzata in violazione della legge e dei proprietari confinanti.
La censura è prima che infondata inammissibile.
Va osservato che la Corte di appello – premesso che il mero mutamento di destinazione (anche laddove la relativa illegittimità fosse stata accertata dal punto di vista amministrativo) non costituiva di per se stesso causa di pregiudizio per il proprietario confinante – ha ritenuto che le generiche doglianze relative alla “statica” ed all’”estetica” del fabbricato non erano risultate suffragate dall’esito delle operazioni peritali, avendo la consulenza tecnica di ufficio accertato che le trasformazioni interne realizzate dalla B. non avevano arrecato alcun danno allo stabile condominiale.
Oltre ad essere tale motivazione conforme alla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui per innovazione in senso tecnico-giuridico, vietata dall’art. 1120, secondo comma, c.c., deve intendersi non qualsiasi mutamento o modificazione della cosa comune, ma solamente quella modificazione materiale che ne alteri l’entità sostanziale o ne muti la destinazione originaria (v. fra le tante: Cass. 23 ottobre 1999 n. 11936; Cass. 14 novembre 1998 n. 6146; Cass. 29 agosto 1998 n. 8622), la censura investe una valutazione del fatto che appare congruamente motivata da parte del giudice di merito, che ha richiamato sul punto le risultanze della consulenza tecnica d’ufficio svolta in primo grado, che aveva escluso l’esistenza di tale tipo di pregiudizio.
L’indicazione, poi, di abusiva costituzione di vedute nel cortile e nello spazio annesso alla loro proprietà, elementi che sarebbero stati trascurati dai giudici di merito, appare generica, doglianza riportata nei passi della decisione impugnata sempre con riferimento alla consulenza tecnica, che ha accertato avere conservato le aperture esistenti la caratteristica di luci, descrivendone così la natura e la consistenza.
Con il secondo motivo i ricorrenti incidentali deducono la violazione e falsa applicazione degli artt. 901, 903 e ss. c.c., nonché carenza di motivazione, relativamente al rigetto della loro domanda di chiusura delle luci aperte illegittimamente dalla B. nel muro di confine, in quanto nessuno dei comproprietari può aprire luce senza il consenso dell’altro manifestato per iscritto. Aggiungono che comunque si tratta di luci non conformi alle prescrizioni di cui all’art. 901 c.c. (quanto ad altezza e a caratteristiche).
Il motivo non può trovare ingresso.
In tema di condominio, ai sensi dell’art. 1102 c.c., comma 1, ciascun condomino è libero di servirsi della cosa comune, anche per fine esclusivamente proprio, traendo ogni possibile utilità, purché non alteri la destinazione della cosa comune e consenta un uso paritetico agli altri condomini. L’apertura di finestre ovvero la trasformazione di luce in veduta su un cortile comune rientra nei poteri spettanti ai condomini ai sensi dell’art. 1102 c.c. tenuto conto che i cortili comuni, assolvendo alla precipua finalità di dare aria e luce agli immobili circostanti, ben sono fruibili a tale scopo dai condomini, cui spetta anche la facoltà di praticare aperture che consentano di ricevere aria e luce dal cortile comune o di affacciarsi sullo stesso, senza incontrare le limitazioni prescritte, in tema di luci e vedute, a tutela dei proprietari dei fondi confinanti di proprietà esclusiva. Ed invero, in considerazione della peculiarità del condominio, caratterizzato dalla presenza di una pluralità di unità immobiliari che insistono nel medesimo fabbricato, i diritti e gli obblighi dei partecipanti vanno necessariamente determinati alla luce della disciplina dettata dall’art. 1102 c.c.: qualora il condomino abbia utilizzato i beni comuni nell’ambito dei poteri e dei limiti stabiliti dalla norma sopra richiamata, l’esercizio legittimo dei diritti spettanti al condomino iure proprietatis esclude che possano invocarsi le violazioni delle norme dettate in materia di distanze fra proprietà confinanti.
La corte di merito, pertanto, ha fatto corretta applicazione di detto principio affermando che l’apertura in contestazione, ossia quella che affaccia in un cavedio interposto tra le proprietà (disposta la chiusura dell’altra posta a 20 cm. dalla quota di calpestio del lastrico degli appellati), costituiva utilizzo lecito della cosa comune, avendo nella specie compiuto una valutazione conforme ai parametri sopra illustrati laddove ha in sostanza escluso il pregiudizio lamentato dai condomini ricorrenti incidentali.
Con terzo ed ultimo motivo i ricorrenti incidentali lamentano la violazione e falsa applicazione degli artt. 1062, 1064 e ss. c.c., nonché vizio di motivazione, per non avere riconosciuto il giudice del gravame la illegittimità della chiusura del varco di accesso da via (OMISSIS) nonostante si fosse in presenza di una servitù costituita per destinazione del padre di famiglia ex art. 1062 c.c..
Anche questo motivo si prospetta inammissibile.
Infatti, la Corte di appello partenopea ha rigettato la doglianza dedotta in sede di gravame e correlata all’accoglimento della richiesta di consegna delle chiavi di accesso (secondario) del cancello di ingresso al civico n. 18, sul presupposto che la fattispecie rientrasse nell’ambito di operatività dell’art. 1068 c.c., e non sulla scorta dell’insussistenza dei requisiti di applicazione degli artt. 1062 e 1064 c.c.. Ne consegue che con la formulata doglianza i ricorrenti incidentali non hanno attinto la “ratio decidendi” della sentenza impugnata secondo la quale il proprietario del fondo servente è comunque legittimato ad ottenere il trasferimento del luogo di esercizio della servitù, che può ottenere anche nell’ambito del giudizio introdotto dal proprietario del fondo dominante. Conclusivamente vanno rigettati entrambi i ricorsi, principale ed incidentale.
La reciproca soccombenza delle parti giustifica la integrale compensazione delle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte, rigetta il ricorso principale e quello incidentale;dichiara interamente compensate fra le parte le spese del giudizio di Cassazione.

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