L’art. 873 cod. civ. (Distanze nelle costruzioni – Le costruzioni su fondi finitimi, se non sono unite o aderenti, devono essere tenute a distanza non minore di tre metri. Nei regolamenti locali può essere stabilita una maggiore distanza) trova applicazione anche quando, a causa del dislivello tra i fondi, la costruzione edificata nell’area meno elevata non raggiunga il livello di quello superiore, in quanto il rispetto delle distanze legali non viene meno in assenza del pericolo del formarsi d’intercapedini dannose.
Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 26 giugno – 11 settembre 2013, n. 20850
Presidente Oddo – Relatore Proto
Svolgimento del processo
Con citazione del 26/11/1991 F..P. conveniva in giudizio V.R..R. ed esponeva che il convenuto, proprietario del piano terra e di un annesso cortiletto sul quale insisteva una autorimessa, aveva ricostruito il locale in violazione delle distanze legali dalla sua proprietà posta al primo piano dello stesso edificio e in violazione del suo diritto di servitù di veduta.
Tanto premesso, chiedeva la condanna del convenuto alla demolizione delle opere realizzate in violazione delle distanze e della servitù di veduta, nonché la condanna generica al risarcimento del danno.
Il convenuto si costituiva contestando le violazioni a lui addebitate e chiedendo il rigetto dell’avversa domanda.
Dopo l’espletamento di CTU il G.O.A. del Tribunale di Bari con sentenza del 13/2/2004 condannava il convenuto al ripristino dell’originaria altezza dell’autorimessa che era stata sopraelevata e alla riduzione dell’altezza del nuovo corpo di fabbrica realizzato per il collegamento tra il piano terra e l’autorimessa; condannava inoltre il convenuto al risarcimento dei danni da liquidarsi in separato giudizio.
La sentenza era appellata dal R. ; il P. costituendosi chiedeva il rigetto dell’appello.
La Corte di Appello di Bari con sentenza del 23/5/2007 rigettava l’appello con integrale conferma della sentenza appellata e condannava il soccombente alle spese.
La Corte di Appello rilevava:
che l’accertata sopraelevazione dell’edificio preesistente (realizzata per ottenere maggiori volumi e, in particolare, un soppalco) costituiva nuova costruzione e come tale doveva rispettare la disciplina delle distanze legali vigente al momento della costruzione, disciplina che, invece, non era stata rispettata perché, incontestatamente, non erano state rispettate le distanze tra costruzioni stabilite dall’art. 11 delle N.T.A. del vigente P.R.G. (nella specie 10 metri, come risulta dalla sentenza di primo grado, riportata integralmente nel ricorso); conseguentemente doveva essere ripristinata l’originaria altezza dell’edificio mediante demolizione limitata alla maggiore altezza accertata;
che il nuovo corpo di fabbrica per il collegamento del piano terra con il locale destinato ad autorimessa era stato realizzato in violazione della distanza minima di tre metri dalla veduta verso il fondo vicino, prescritta dall’art. 907 c.c., e conseguentemente doveva esserne ridotta l’altezza fino a rientrare nel limite della distanza di tre metri prescritta dall’art. 907 c.c.;
che l’illegittimità della sopraelevazione realizzata in violazione delle norme urbanistiche sulle distanze tra costruzioni non veniva meno per effetto della legge n. 122/1989 che consentiva la costruzione di parcheggi in deroga agli strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi sia perché la deroga è consentita solo per i parcheggi nel sottosuolo e non quando, come nella specie la costruzione è realizzata al livello del piano di calpestio dell’immobile, sia perché non è stata costruita ex novo una autorimessa, ma è ne è stata ricostruita una preesistente ad altezza superiore e illegittima;
che l’accertata illegittimità delle opere realizzate dal R. era sufficiente a giustificare la condanna generica al risarcimento del danno, non generando alcun vincolo in ordine all’accertamento dell’esistenza del danno. V.R..R. propone ricorso affidato a sei motivi; resiste con controricorso P.F. .
Entrambe le parti hanno depositato memorie.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo il ricorrente deduce la violazione degli artt. 873 c.c., 112 e 342 c.p.c..
Il ricorrente, premette:
– che il consulente tecnico di ufficio aveva evidenziato che il tetto del manufatto, inclinato di 15 gradi rispetto al piano orizzontale non poteva essere assimilato ad una parete verticale; – di avere dedotto, nell’atto di appello, che il Tribunale aveva omesso di vagliare tutte le risultanze della CTU. Ciò premesso sostiene:
– che la Corte di Appello, per affermare l’applicabilità dell’art. 873 c.c., avrebbe dovuto esaminare se la parete del tetto a falda nel suo punto terminale fronteggiasse o meno la proprietà del P. , se il punto terminale fosse posto al di sotto o al di sopra del piano di calpestio e se fosse stata creata una intercapedine suscettibile di produrre in indebito asservimento;
– che per la mancanza di questi approfondimenti il Tribunale avrebbe violato gli artt. 116 e 134 c.p.c.;
– che nella perizia non sarebbe indicata una altezza, di metri 4,50 dal lato nord, invece indicata dal Tribunale;
– che la deduzione, svolta nella conclusionale in appello, con la quale si contestava l’applicabilità dell’art. 873 c.c. perché non si sarebbe in presenza di pareti e fronti esterni, non costituiva un argomento nuovo, ma una questione naturalmente compresa nel thema decidendum, in stretta connessione con il denunciato vizio di motivazione. Formulando il quesito prescritto dall’art. 366 bi c.p.c. ora abrogato, ma applicabile ratione temporis, il ricorrente chiede:
– se la norma dell’art. 873 c.c. sia applicabile qualora i fabbricati non abbiano pareti contrapposte ovvero qualora tra le frontistanti facciate non sussista almeno un segmento tale che l’avanzamento ideale di una o entrambe le facciate porti al loro incontro;
– se costituisca errore di diritto avere definito la controversia senza farsi carico dell’attività svolta dal consulente che abbia accertato elementi essenziali;
– se sia privo di specificità il motivo di appello proposto per avere il primo giudice omesso di vagliare tutte le risultanze della CTU e le sue conclusioni;
– se l’avere evidenziato in conclusionale come l’omessa analisi abbia rivestito carattere di rilevante gravità avendo pregiudicato l’individuazione della fattispecie dia luogo ad una irrituale formulazione del motivo di appello ovvero costituisca sviluppo di quello già proposto.
1.1 Il motivo, nel quale si deduce un errore di diritto della Corte di Appello come conseguenza di errata valutazione di elementi di fatto accertati dalla CTU e di un errore di diritto del Tribunale, nonché l’erronea applicazione dell’art. 342 c.p.c. e la conseguente omessa pronuncia, è manifestamente infondato.
È infatti assorbente rilevare che il tema di indagine, relativo all’inapplicabilità dell’art. 873 c.c. per l’assenza di pareti e fronti esterni contrapposti, in quanto integrante un asserito errore di diritto, coinvolgente anche questioni di fatto, doveva essere dedotto, ai sensi dell’art. 342 c.p.c. come motivo di appello (né è stata dedotta la violazione dell’art. 345 c.p.c.) non essendo sufficiente ad integrare un motivo di impugnazione specifico, come richiesto dalla norma processuale la generica affermazione che il Tribunale aveva omesso di valutare “tutte le risultanze della consulenza tecnica di ufficio” senza alcun riferimento alla problematica che poteva porre, in punto di diritto, l’assenza di pareti e fronti esterni, posto che tale assenza in tanto poteva assumere rilevanza proprio in quanto e solo in quanto l’art. 873 c.c. fosse interpretato nel senso che il rispetto delle distanze tra costruzioni sia subordinato all’esistenza di pareti e fronti contrapposti e venga meno in caso di dislivelli tra le costruzioni.
Il primo quesito (se l’art. 873 c.c. sia applicabile qualora i fabbricati non abbiano pareti contrapposte ovvero tra le frontistanti facciate non sussista almeno un segmento tale che l’avanzamento ideale di una o entrambe le facciate porti al loro incontro), tra l’altro, ha già avuto risposta nella costante giurisprudenza di questa Corte (allo stato non contraddetta da contrarie decisioni) che ha negato la necessità, ai fini del rispetto delle distanze tra costruzioni, che le pareti si trovino allo stesso livello (cfr. Cass. 15/7/2008 n. 19486).
Questa Corte ha infatti affermato il principio che l’art. 873 cod. civ. trova applicazione anche quando, a causa del dislivello tra i fondi, la costruzione edificata nell’area meno elevata non raggiunga il livello di quello superiore, in quanto il rispetto delle distanze legali non viene meno in assenza del pericolo del formarsi d’intercapedini dannose.
Questa giurisprudenza si ricollega a principi già in precedenza costantemente affermati, secondo i quali:
– ai fini delle prescrizioni che impongono distacchi minimi è indifferente che i fondi siano posti a dislivello o si trovino alla medesima quota (Cass. 21 maggio 1997 n. 4511);
le relative misurazioni vanno effettuate sul piano virtuale orizzontale, prendendo in considerazione, come su una mappa, le proiezioni in verticale delle sagome degli edifici e delle linee dei confini (Cass. 24 novembre 1995 n. 12163);
– soltanto le costruzioni completamente interrate rispetto al suolo in cui sono realizzate – o che non ne emergono in misura apprezzabile, come i cordoli ai margini di un campo da tennis – non sono soggette alla disciplina contenuta nell’art. 873 c.c. e ss., o a quella più restrittiva dettata dai regolamenti locali (Cass. 1 luglio 1996 n. 5956).
2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce l’illogicità e la carenza di motivazione della Corte di Appello sostenendo:
– che la sentenza del Tribunale era stata appellata per la mancanza di una valutazione critica ancorata alle risultanze processuali, idoneamente e logicamente motivata e che il Giudice non aveva indicato i parametri giuridici ed i criteri di valutazione ritenuti idonei a giustificare una decisione contrastante con il parere del consulente;
– che la Corte di Appello si sarebbe limitata ad affermare che il G.O.A. aveva chiaramente enunciato le ragioni che lo avevano indotto a raggiungere conclusioni diverse da quelle formulate dal C.T.U.;
– che invece la Corte di appello non avrebbe dovuto limitarsi a richiamare genericamente le ragioni enunciate dal primo giudice, ma avrebbe dovuto esprimere le ragioni per le quali ha ritenuto di confermare della decisione.
2.1 Il motivo è inammissibile in quanto l’oggetto del giudizio di appello è delimitato dalle ragioni specificamente espresse nei motivi di appello e, solo in relazione a queste, il giudice di appello deve valutare non già l’adeguata motivazione del primo giudice, ma la fondatezza della domanda attrice e delle difese del convenuto, né è ammissibile in sede di legittimità, la questione attinente alla logicità o sufficienza della motivazione della sentenza di primo grado se la Corte di Appello non sia investita di tale esame con uno specifico motivo di appello, anche in applicazione del principio secondo il quale, ai sensi dell’art. 161 c.p.c. comma primo, i motivi di nullità della sentenza si convertono in motivi di gravame.
La Corte di Appello non si è sottratta all’obbligo di pronunciare su specifici motivi di appello, come risulta evidente dalla semplice lettura della motivazione della sentenza, ma ha esaminato gli specifici motivi di impugnazione nel merito e ha congruamente motivato:
– sull’accertata sopraelevazione dell’edificio preesistente (realizzata per ottenere maggiori volumi e, in particolare, un soppalco);
– sulla natura di nuova costruzione della soprelevazione, come tale soggetta alla disciplina delle distanze legali vigente al momento della costruzione, disciplina che, invece, non era stata rispettata perché, incontestatamente, non erano state rispettate le distanze tra costruzioni stabilite dall’art. 11 delle N.T.A. del vigente P. R. G.;
– sulla violazione della distanza minima di tre metri dalla veduta verso il fondo vicino, prescritta dall’art. 907 e.e. quanto al nuovo corpo di fabbrica per il collegamento del piano terra con il locale destinato ad autorimessa;
-sull’irrilevanza, rispetto all’illegittimità della sopraelevazione realizzata in violazione delle norme urbanistiche sulle distanze tra costruzioni, della legge n. 122/1989 che consentiva la costruzione di parcheggi in deroga agli strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi sia perché la deroga è consentita solo per i parcheggi nel sottosuolo e non quando, la costruzione è realizzata sul piano di calpestio dell’immobile, sia perché non è stata costruita ex novo una autorimessa, ma è ne è stata ricostruita una preesistente ad altezza superiore e illegittima;
– sulla legittimità della condanna generica al risarcimento del danno in presenza delle accertate violazioni delle norme sulle distanze tra le costruzioni e di quelle relative alle distanze delle vedute non generando, la condanna generica, alcun vincolo in ordine all’accertamento dell’esistenza del danno.
Queste rationes decidendi, sono indubbiamente sufficienti a sostenere la decisione di appello indipendentemente dalla irrilevante (per le ragioni già espresse sub 1.1) considerazione del CTU che ha osservato che il tetto del manufatto non può essere assimilato ad una parete verticale, essendo invece rilevante la considerazione che la soprelevazione, nella sua globalità, costituisce nuova costruzione e che tale nuova costruzione è stata realizzata in violazione delle distanze.
3. Con il terzo motivo il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 e 342 c.p.c. e il vizio di motivazione sostenendo che la Corte di Appello avrebbe deciso, rigettandole, due questioni che non avevano formato oggetto di appello, ossia l’esonero dal rispetto delle distanze legali che deriverebbe dal fatto che le opere erano realizzate da un unico proprietario e l’esistenza di un diritto di costruire che sarebbe garantito dall’art. 112 c.p.c..
Il vizio di motivazione viene ravvisato dal ricorrente per il carattere fuorviante della motivazione rispetto al thema decidendum.
Formulando il quesito di diritto il ricorrente chiede se costituisca falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c. la reiezione di un motivo di gravame non proposto.
3.1 Il motivo è inammissibile per carenza di interesse, posto che dal suo accoglimento non deriverebbe la riforma della sentenza fondata sulla reiezione dei motivi invece proposti.
4. Con il quarto motivo il ricorrente deduce la violazione dell’art. 873 c.c. e dell’art. 9 legge 122/1989 e il vizio di motivazione sostenendo:
– che la legge n. 122/1989 in quanto lex specialis deroga all’art. 873 c.c. e tutela un interesse pubblico che, ove riconosciuto dall’autorità amministrativa, sarebbe prevalente rispetto all’interesse tutelato dall’art. 873 c.c.;
– che, differentemente da quanto ritenuto dalla Corte di Appello, con interpretazione che il ricorrente definisce “radicalmente erronea”, l’art. 9 legge n. 122 del 1989 consente la realizzazione di parcheggi anche se collocati in cortili di pertinenza o in aree esterne, comunque adiacenti senza necessità delle distanze dai confini e richiama una decisione del 1995 del Consiglio di Stato;
– che l’ulteriore argomento della Corte di Appello secondo il quale la normativa speciale non sarebbe applicabile in caso di ampliamento di autorimessa già esistente è un argomento solo ipotetico e quindi privo della certezza necessaria per rigettare il motivo di appello;
– che l’affermazione della Corte territoriale secondo la quale la sopraelevazione sarebbe stata realizzata per realizzare un soppalco non sarebbe riscontrata da elementi acquisiti al processo.
Formulando il quesito di diritto chiede:
– se l’art. 9 della legge n. 122 del 1989 importi, nei limiti segnati dal suo ambito di applicazione, una deroga al disposto dell’art. 873 c.c. al punto di determinarne l’inapplicabilità in misura corrispondente al contenuto del provvedimento concessorio emesso dalla Pubblica Amministrazione;
– se l’art. 9 sia da considerare applicabile anche quando trattasi di parcheggio non situato nel sottosuolo, ma sullo stesso piano di calpestio dell’immobile.
4.1 Il motivo è manifestamente infondato e non è certo la motivazione della Corte di Appello ad essere “radicalmente erronea” come sostenuto dal ricorrente.
L’art. 9 legge n. 122 del 1989 stabilisce che “i proprietari di immobili possono realizzare nel sottosuolo degli stessi ovvero nei locali siti al piano terreno dei fabbricati parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti. Tali parcheggi possono essere realizzati, ad uso esclusivo dei residenti, anche nel sottosuolo di aree pertinenziali esterne al fabbricato, purché, non in contrasto con i piani urbani del traffico, tenuto conto dell’uso della superficie sovrastante e compatibilmente con la tutela dei corpi idrici… omissis”.
Nel caso di specie è pacifico (come, del resto risulta dal materiale fotografico inserito nel ricorso dallo stesso ricorrente) che l’autorimessa è stata realizzata non già nel sottosuolo dell’edificio né nei suoi locali a piano terreno (come sarebbe consentito dalla legge in questione) bensì in area pertinenziale all’immobile; in tale ipotesi, qui ricorrente, la deroga agli obblighi di distanza è consentita solo se l’autorimessa è realizzata nel sottosuolo.
Il dettato normativo è chiaro ed univoco e, proprio perché introduce norma eccezionale derogatoria rispetto all’ordinaria disciplina delle distanze, non ne è legittima alcuna interpretazione estensiva.
La legge Tognoli, se pure è volta a favorire la realizzazione di autorimesse, è contestualmente intesa a fare salvo l’aspetto esteriore e visibile del territorio, nel senso di consentire la realizzazione di parcheggi nel sottosuolo o al piano terreno di un fabbricato preesistente, proprio perché, ubicate nei modi previsti dalla legge, tali strutture non comportano alterazioni visibili del territorio; lo stesso argomento è ovviamente valido per le autorimesse pertinenziali, ma solo se sotterranee e quindi inidonee ad alterare lo stato esterno dei luoghi. Con riferimento alla giurisprudenza del Consiglio di Stato, solo per completezza di argomentazione, ulteriormente si osserva che nello stesso senso si è espressa anche la più recente giurisprudenza amministrativa secondo la quale la realizzazione di autorimesse e parcheggi, se non effettuata totalmente al di sotto del piano di campagna naturale è soggetta alla disciplina urbanistica dettata per le ordinarie nuove costruzioni fuori terra (Con. St., IV 16/4/2012 n. 2185; IV 11 novembre 2006, n. 6065; V 29 marzo 2004, n. 1662).
Nella decisione del Consiglio di Stato, Sezione IV 23 febbraio 2009, n. 1070 testualmente si legge che:
“i parcheggi devono essere realizzati, se non vengono a ciò adibiti i locali del piano terra di un fabbricato, o nel sottosuolo dello stesso fabbricato ovvero nel sottosuolo di un’area pertinenziale esterna…”.
In tal senso si risponde al secondo quesito formulato, restando assorbito il primo quesito; per tali ragioni non sussiste il dedotto vizio di motivazione in quanto la motivazione è del tutto conforme ai principi esposti, con la precisazione che la circostanza che l’autorimessa sia posta a livello del piano di calpestio dell’immobile non rileva perché l’autorimessa non è stata realizzata al piano terra dell’immobile, tale essendo l’unica condizione per la quale sarebbe stato possibile realizzare un parcheggio senza il rispetto delle norme in materia di distanze.
È parimenti conforme ai principi l’ulteriore motivazione (autonomamente sufficiente a sorreggere la decisione) secondo la quale la deroga è consentita solo per le nuove costruzioni e non per la sopraelevazione di una autorimessa già esistente e anche sotto questo diverso profilo il motivo di ricorso si rivela manifestamente infondato. 5. Con il quinto motivo il ricorrente deduce la violazione dell’art. 112 c.p.c. e il vizio di motivazione.
Il ricorrente sostiene che con l’atto di citazione l’attore avrebbe richiesto solo la demolizione del nuovo manufatto costituito dall’autorimessa per la parte concretante violazione delle distanze legali e non avrebbe, invece, chiesto la demolizione della pensilina in metallo ondulato di collegamento del piano terra con il locale autorimessa; pertanto la Corte di Appello avrebbe errato nel rigettare la censura di extrapetizione formulata in atto di appello, avverso la sentenza del Tribunale con la quale era stata anche la demolizione della pensilina.
Il ricorrente inoltre sostiene che la Corte di Appello, in motivazione, ha osservato che in citazione era stata dedotta anche la lesione della servitù di veduta conseguente alla realizzazione della nuova costruzione; questa motivazione sarebbe illogica in quanto la contestazione dell’appellante riguardava il bene oggetto della domanda e non la natura del diritto fatto valere; la motivazione sarebbe altresì carente perché la Corte di Appello non avrebbe esplicitato le ragioni per le quali la pensilina impedirebbe l’esercizio della servitù di veduta.
Formulando il quesito di diritto chiede se costituisca vizio di extrapetizione sanzionabile ai sensi dell’art. 112 c.p.c. avere emesso un ordine di demolizione di un corpo di fabbrica non contemplato dall’attore in sede di determinazione dell’oggetto della domanda desumendone la pertinenza al thema decidendum dalla particolare natura del diritto soggettivo azionato.
5.1 Il motivo è manifestamente infondato. La Corte di Appello ha rilevato che la domanda riguardava la nuova costruzione comprendente anche l’opera realizzata per rendere comunicante il piano terra con l’autorimessa in quanto era stata dedotta sia la violazione delle norme sulle distanze tra le costruzioni, sia la violazione del diritto di servitù di veduta; siccome erano accertate entrambe le violazioni (la violazione delle distanze per la sopraelevazione dell’autorimessa e la violazione della servitù di veduta per la annessa costruzione del collegamento) ha ritenuto di escludere che il provvedimento ripristinatorio adottato per porre rimedio alla violazione della servitù di veduta dipendente dalla costruzione collegata all’autorimessa, potesse essere viziato da extrapetizione.
La motivazione è del tutto adeguata sull’individuazione del petitum e della causa petendi che hanno consentito la riduzione dell’altezza della pensilina.
La decisione della Corte di Appello non è viziata di extrapetizione, posto che ha deciso su uno specifico motivo di appello e la motivazione, come detto non né carente né illogica; la motivazione relativa alla violazione della servitù di veduta è congrua perché la Corte di Appello ha richiamato l’art. 907 c.c. (la cui violazione o falsa applicazione non è dedotta né in questo motivo né negli altri motivi di ricorso) e ha accertato che la costruzione accessoria realizzata per attuare il collegamento tra autorimessa e piano terra non rispettava la distanza di metri tre prescritta dallo stesso articolo che regola, appunto, la distanza delle costruzioni dalle vedute.
6. Con il sesto motivo il ricorrente deduce la violazione degli artt. 949, 2043 c.c. e 278 c.p.c. quanto alla condanna generica al risarcimento del danno, sul presupposto che le opere che le opere da lui realizzate non siano illegittime.
6.1 Il motivo resta assorbito dall’accertata illegittimità delle opere; quanto all’esistenza di un danno in re ipsa per la violazione delle distanze tra costruzioni, la decisione impugnata è conforme alla più recente giurisprudenza di questa Corte che qui si condivide integralmente, secondo la quale in tema di violazione delle distanze tra costruzioni previste dal codice civile e dalle norme integrative dello stesso, quali i regolamenti edilizi comunali, al proprietario confinante che lamenti tale violazione compete sia la tutela in forma specifica, finalizzata al ripristino della situazione antecedente al verificarsi dell’illecito, sia quella risarcitoria ed il danno che egli subisce (danno conseguenza e non danno evento), essendo l’effetto, certo ed indiscutibile, dell’abusiva imposizione di una servitù nel proprio fondo e, quindi, della limitazione del relativo godimento, che si traduce in una diminuzione temporanea del valore della proprietà medesima, deve ritenersi “in re ipsa”, senza necessità di una specifica attività probatoria (cfr. Cass. 16/12/2010 n. 25475; Cass. 7/5/2010 n. 11196).
7. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato con la condanna del ricorrente, in quanto soccombente, la pagamento delle spese di questo giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna V.R..R. a pagare a F..P. le spese di questo giudizio di cassazione che liquida in Euro 2.500,00 per compensi oltre Euro 200,00 per esborsi.