Ai sensi dell’art. 1592 c.c., in mancanza di prova del consenso, il conduttore non può avere diritto ad indennità per i miglioramenti apportati al bene locato.
Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 4 luglio – 9 ottobre 2013, n. 22986
Presidente Felicetti – Relatore Mazzacane
Svolgimento del processo
D..C. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Genova P..O. chiedendone la condanna al pagamento della somma di lire 75.000.000 per l’esecuzione di lavori all’immobile di proprietà di quest’ultimo sito in piazza (omissis) indicati nel preventivo del novembre 1990, ritenuti necessari in quanto il bene era in pessime condizioni.
Il convenuto costituendosi in giudizio contestava il fondamento della domanda attrice, assumendo che l’immobile, locato al C. con contratto del 18-10-1990, era idoneo all’uso e non necessitava di alcuna miglioria o modifica.
Il Tribunale adito con sentenza n. 912 del 2004 accoglieva la domanda attrice e respingeva la domanda riconvenzionale.
Proposta impugnazione da parte di C..D.M. quale erede dell’O. , nel frattempo deceduto, cui resisteva il C. , la Corte di Appello di Genova con sentenza del 19-8-2006, in totale riforma della sentenza di primo grado, ha rigettato la domanda formulata dal C. nei confronti dell’O. ed ha condannato l’appellato al rimborso delle spese di entrambi i gradi di giudizio.
Avverso tale sentenza il C. ha proposto un ricorso articolato in tre motivi seguito successivamente dal deposito di una memoria cui la D.M. ha resistito con controricorso.
Motivi della decisione
Preliminarmente deve essere disattesa l’eccezione della controricorrente di inammissibilità del ricorso per difetto di specialità della procura rilasciata a margine del ricorso stesso senza alcun riferimento al giudizio di cassazione; invero, a prescindere dall’osservare che nel suddetto mandato si menziona anche la Corte di Cassazione, è decisivo rilevare che il mandato apposto in calce o a margine del ricorso per cassazione, essendo per sua natura speciale, non richiede ai fini della sua validità alcun specifico riferimento al giudizio in corso, sicché risultano irrilevanti sia la mancanza di uno specifico richiamo al giudizio di legittimità sia il fatto che la formula adottata faccia cenno a poteri e facoltà rapportabili al giudizio di merito.
Venendo quindi all’esame del ricorso, si rileva che con il primo motivo il ricorrente, denunciando violazione e/o omessa applicazione degli artt. 115 c.p.c., 2697-1655-2729-1322-1326 e 1362 c.c., censura la sentenza impugnata per aver ritenuto insussistente la prova del contratto di appalto dedotto dall’esponente a fondamento della propria domanda di natura contrattuale.
Il C. evidenzia tra gli elementi probatori a sostegno del proprio assunto il preventivo dei lavori da realizzare estremamente analitico, l’esecuzione precisa e dettagliata dei lavori eseguiti come accertati dalla CTU e realizzati da una impresa specializzata di cui era titolare l’esponente, la mancanza di qualsiasi contestazione al riguardo da parte dell’O. sia durante sia successivamente alla ricezione della richiesta scritta di pagamento del corrispettivo di detti lavori, l’ammissione esplicita da parte di quest’ultimo di aver preso visione dei lavori durante la loro esecuzione, e la sua dichiarazione resa in sede di interrogatorio formale in ordine ad un accordo di massima con il C. di suo interpello in caso di messa in vendita dell’appartamento predetto; d’altra parte la Corte territoriale, partendo da un fatto noto (ovvero l’esecuzione dei lavori, la presenza dell’O. durante l’esecuzione dei lavori, l’accordo delle parti sulla vendita), avrebbe potuto presuntivamente ritenere provato l’accordo sulla esecuzione dei lavori stessi, cioè l’ordine di eseguire quegli interventi di cui si sarebbe tenuto conto un domani nella determinazione del prezzo di vendita dell’appartamento onde non avvantaggiare il venditore del maggior valore dell’immobile.
La censura è infondata.
La Corte territoriale, premessi gli oneri probatori a carico di colui che agisce in giudizio invocando l’esistenza di un contratto, nella specie di appalto, ha escluso che la mancata contestazione della controparte in relazione al ricevimento del preventivo ed il suo mancato dissenso in occasione di un accesso durante l’esecuzione dei lavori potessero costituire la prova dell’accordo tra le parti avente ad oggetto appunto l’esecuzione dei lavori indicati nel preventivo prodotto dal C. , trattandosi di meri comportamenti omissivi dell’O. ai quali non poteva attribuirsi la valenza di ammissioni in quanto privi di alcun contenuto positivo, come tali inidonei a far ritenere assolto dall’attore il proprio onere probatorio; neppure aveva valenza confessoria rilevante la dichiarazione resa dall’O. in sede di interrogatorio formale in ordine alla sussistenza di un accordo con il C. in caso di futura vendita dell’appartamento di sua proprietà, considerato altresì che l’O. nulla aveva ammesso in relazione al tipo di accordo che sarebbe stato convenuto tra le parti secondo il C. (ovvero che l’eventuale vendita dell’immobile sarebbe avvenuta con uno sconto sul prezzo, attesi i lavori eseguiti).
Il giudice di appello, quindi, escluso che dalle prove assunte potessero desumersi elementi utili ai fini della prova dell’esistenza del contratto d’appalto invocato dal C. , ha invece ritenuto pacifico in causa che tra le parti era intercorso in data 18-10-1990 un contratto di locazione dell’immobile di proprietà dell’O. in relazione al quale il C. , titolare di una ditta artigiana, aveva fatto valere l’esecuzione di lavori come da preventivo in atti risultati effettuati dopo la stipula del contratto di locazione; in tale contesto, caratterizzato dal rapporto temporale e funzionale tra i lavori ed il contratto di locazione, trovava logica applicazione l’art. 1592 c.c. secondo il quale, in mancanza di prova del consenso, il conduttore non può avere diritto ad indennità per i miglioramenti apportati al bene locato; neppure vi era contrasto tra tale norma e l’art. 6 del contratto di locazione, che prevedeva il divieto di arrecare qualsiasi modifica, innovazione o trasformazione all’immobile in quanto, anche a prescindere da ogni eventuale distinzione tra tali attività e le migliorie di cui all’art. 1592 c.c., era assorbente rilevare che con il suo successivo comportamento il locatore non aveva voluto far valere tale divieto, limitandosi a non contestare i lavori eseguiti dal C. .
Alla luce di tali considerazioni è legittimo concludere che la sentenza impugnata ha proceduto ad un accertamento di fatto sorretto da ampia e logica motivazione – non oggetto quest’ultima comunque di censure in questa sede – immune dai rilievi sollevati dal ricorrente, che invero tende inammissibilmente a prospettare una diversa valutazione delle risultanze probatorie, trascurando i poteri discrezionali devoluti al riguardo al giudice di merito, anche con riferimento all’apprezzamento della prova per presunzioni.
Per altro verso è agevole osservare che gli elementi addotti dal ricorrente a sostegno della asserita conclusione di un contratto di appalto sono irrilevanti a tal fine, non attenendo all’esistenza dell’imprescindibile requisito del consenso da parte dell’O. quale committente dell’esecuzione dei lavori in questione nel suo appartamento; d’altra parte il diverso inquadramento della fattispecie da parte del giudice di appello ai sensi dell’art. 1592 c.c. appare del tutto logico e corretto sul piano giuridico anche con riferimento al principio secondo cui il diritto del conduttore alla indennità per i miglioramenti della cosa locata presuppone che le relative opere siano state eseguite con il consenso del locatore, consenso che, importando cognizione dell’entità, anche economica, e della convenienza delle opere, non può essere implicito, né può desumersi da atti di tolleranza, ma deve concretarsi in una chiara ed inequivoca manifestazione di volontà volta ad approvare le eseguite innovazioni (Cass. 30-1-2009 n. 2494).
Con il secondo motivo il C. , deducendo violazione dell’art. 2041 c.c. in relazione all’art. 114 c.p.c., sostiene di aver proposto in via subordinata una domanda di arricchimento senza causa che faceva riferimento unicamente al contratto di appalto e non al contratto di locazione, atteso che l’esponente aveva agito non nella veste di locatario dell’immobile ma di titolare di impresa edile abilitata alla esecuzione dei lavori descritti in preventivo, poi effettivamente realizzati; in ogni caso l’art. 1592 c.c., richiamato dal giudice di appello era stato mal applicato, atteso che dalle risultanze probatorie era emerso l’assenso almeno implicito della parte locatrice alla esecuzione dei lavori in questione.
La censura è infondata.
Anzitutto correttamente la Corte territoriale ha affermato che, trovando applicazione nella fattispecie l’art. 1592 c.c., era esclusa in radice la possibilità di far valere l’azione di cui all’art. 2041 c.c.; infatti l’azione generale di arricchimento ha carattere sussidiario, e quindi è inammissibile qualora sia stata proposta una domanda fondata su titolo contrattuale senza offrire prova sufficiente al suo accoglimento, come nella fattispecie.
È poi evidente che la qualificazione del rapporto intercorso tra le parti come locazione e non come appalto rientra nei poteri del giudice di dare al rapporto in contestazione una qualificazione diversa da quella prospettata dalle parti, nell’ambito naturalmente degli elementi di fatto acquisiti agli atti; quanto all’assenso ai lavori eseguiti dal C. da parte dell’O. , il giudice di appello ha ritenuto insussistente la relativa prova, considerato altresì che tale assenso, come già esposto in occasione dell’esame del primo motivo di ricorso, non può essere implicito.
Con il terzo motivo il ricorrente, deducendo violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., assume che erroneamente la sentenza impugnata ha condannato l’istante al pagamento delle spese di entrambi i gradi di giudizio, nonostante il rigetto della domanda riconvenzionale proposta dall’O. e la sua mancata riproposizione nel giudizio di appello, circostanza che avrebbe dovuto indurre il giudicante alla compensazione parziale o totale di dette spese.
La censura è infondata.
La sentenza impugnata ha correttamente condannato il C. alla rifusione delle spese di entrambi i gradi di giudizio in conformità al principio della soccombenza, posto che all’esito del giudizio di secondo grado le sue domande sono state totalmente rigettate, ed è evidente che tali rilievi non sono infirmati dalla mancata riproposizione da parte dell’appellante della domanda riconvenzionale formulata in primo grado.
In definitiva il ricorso deve essere rigettato; le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento di Euro 200,00 per esborsi e di Euro 2.500,00 per compensi.