Nel contratto preliminare di vendita non può ritenersi superato l’obbligo di garanzia di cui all’art. 1497 c.c., dalla clausola di stile secondo cui il bene viene alienato “nello stato di fatto e diritto” in cui si trova qualora si accerti che nell’unità immobiliare in questione vi sono carenze sotto il profilo igienico sanitario e, quindi, di abitabilità.

 

Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 13 giugno – 17 settembre 2013, n. 21189
Presidente Goldoni – Relatore Nuzzo
Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato il 25.11.1991 Z.J. conveniva in giudizio, innanzi al Tribunale di Venezia, B.G. , esponendo: con contratto preliminare 19.4.1991 si era obbligata ad acquistare dal convenuto un immobile, sito in (omissis) , versando,a titolo di caparra confirmatoria, la somma di L. 19.000.00 sul prezzo complessivo di L. 60.000.0000; dopo la firma del preliminare aveva appresso che l’appartamento promessole in vendita presentava diverse irregolarità urbanistiche. Chiedeva, quindi, la condanna del B. all’esecuzione delle opere necessarie per adeguare l’immobile alle norme urbanistiche ed, in subordine, la declaratoria di risoluzione del contratto per colpa del convenuto, con condanna dello stesso alla restituzione del doppio della caparra versata.
Costituitosi in giudizio il convenuto, in via riconvenzionale, chiedeva la dichiarazione di risoluzione del preliminare di vendita per inadempimento dell’attrice e la condanna della stessa alla perdita della caparra confirmatoria.
Con sentenza 21.11.1995 il Tribunale dichiarava risolto il contratto preliminare per colpa della Z. , considerato il suo rifiuto ingiustificato alla stipulazione dell’atto definitivo di vendita; respingeva per difetto di prova la domanda risarcitoria del promittente venditore senza nulla disporre in ordine alla caparra a lui versata.
Avverso tale decisione il B. proponeva appello cui resisteva la Z. avanzando appello incidentale per la restituzione del doppio della caparra, previa declaratoria di risoluzione del contratto preliminare di vendita per inadempimento del B. .
Con sentenza depositata il 21.2.2007 la Corte d’Appello di Venezia, in riforma della sentenza di primo grado ed in accoglimento dell’appello incidentale, dichiarava risolto, per inadempimento del B. , il contratto preliminare di vendita e condannava lo stesso a versare alla Z. il doppio della caparra confirmatoria ricevuta, oltre interessi legali e spese dei due gradi di giudizio.
Osservava la Corte di merito che il B. si era reso inadempiente all’obbligo espressamente assunto di fornire un bene immune da vizi ed in regola con le norme urbanistiche vigenti, essendo emerso dalla C.T.U. e dalla documentazione acquisita che, sia all’atto della conclusione del preliminare di vendita che della prevista stipulazione del definitivo, l’immobile promesso in vendita presentava svariate, manchevolezze sotto il profilo igienico sanitario, tali da comprometterne l’abitabilità nonché alcune difformità rispetto alla normativa edilizia.
Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso il B. formulando cinque motivi con i relativi quesiti di diritto. Resiste con controricorso e successiva memoria J..Z. .
Motivi della decisione
Il ricorrente deduce:
1) violazione e falsa applicazione delle norme di ermeneutica contrattuale in quanto, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte di merito, la mera dichiarazione di conformità del bene compravenduto alle norme urbanistiche non costituiva assunzione di un obbligo del promittente venditore di rendere il bene conforme alle norme stesse, a fronte della clausola contrattuale secondo cui il bene veniva acquistato “nello stato di fatto e di diritto” in cui si trovava;
2) violazione e falsa applicazione delle norme relative all’interpretazione dei contratti, laddove la sentenza impugnata aveva affermato che il B. si era impegnato a fornire un immobile immune da vizi sotto il profilo igienico sanitario, in contrasto con il tenore letterale delle dichiarazione di conformità dell’immobile solo alle norme urbanistiche;
3) violazione dell’art. 2697 c.c. e carenza assoluta di motivazione circa la rilevanza della prova documentale; la Corte territoriale aveva desunto dal documento rilasciato dall’Ufficio tecnico comunale la sussistenza di carenze igienico-sanitario incidenti sull’abitabilità dell’immobile in questione, mentre sarebbe spettato alla Z. fornire la prova della mancanza o della revoca della relativa abitabilità;
4) violazione e falsa applicazione di legge in ordine alla valutazione delle prove e della C.T.U., per avere la Corte d’appello ritenuto provata la violazione di norme edilizie esclusivamente sulla scorta di un’istanza di sanatoria che il B. aveva presentato per opere eseguite molti anni prima dell’acquisto in proprietà dell’immobile; sarebbe stato, peraltro, onere della controparte individuare e provare gli abusi edilizi;
5) omessa motivazione sul rigetto della domanda di condanna della Z. alla perdita della caparra confirmatoria in conseguenza del recesso dal contratto, posto in essere del B. ai sensi dell’art. 1385, 2 co. c.c..
Il ricorso è infondato.
Il primo motivo é privo del requisito di specificità, ex art. 366 n. 4 c.p.c., in quanto non indica il principio di interpretazione dei contratti che sarebbe stato violato e le ragioni per le quali il giudice d’Appello si sarebbe discostato dai canoni ermeneutici; sotto altro profilo costituisce questione nuova, prospettata per la prima volta in sede di legittimità e, come tale inammissibile, quella con cui si assume il difetto di un obbligo di garanzia derivante dalla specifica dichiarazione contrattuale sulla conformità del bene compravenduto alle norme urbanistiche. In ogni caso detta dichiarazione, ai fini dell’obbligo di garanzia di cui all’art. 1497 c.c., non può ritenersi superata dalla clausola di stile secondo cui il bene veniva alienato “nello stato di fatto e diritto” in cui si trovava.
La seconda doglianza è priva di fondamento, avendo la sentenza impugnata dato conto, sulla base di quanto accertato mediante C.T.U., della richiesta in sanatoria, da parte dello stesso B. , in relazione ad alcuni abusi edilizi nell’esecuzione di lavori interni l’immobile promesso in vendita, comportanti anche la sussistenza di carenze igienico – sanitarie con conseguente rifiuto della licenza di abitabilità, determinata pur sempre dalla violazione di norme urbanistiche.
Del pari infondato è il terzo motivo in quanto attinente ad una diversa valutazione della documentazione riguardante i vizi dell’immobile; non è dato, inoltre, ravvisare alcuna violazione in tema di onere probatorio, avendo correttamente la Corte di merito fondato l’inadempimento del promittente venditore sul documento dell’ufficio tecnico ove si dava atto che “nell’unità immobiliare in questione erano state accertate carenze sotto il profilo igienico sanitario e, quindi, di abitabilità”, documento non contraddetto da alcuna prova contraria incombente sul B. , tenuto a provare l’esattezza della propria prestazione. Correttamente la sentenza impugnata ha, infatti, evidenziato al riguardo che il promissario acquirente, per i vizi dell’immobile di cui abbia avuto conoscenza prima della stipulazione, può opporre l’exceptio indimplenti contractus al promettente venditore che gli chieda la stipulazione del contratto definitivo.
La quarta censura si risolve nella sollecitazione di una diversa valutazione della documentazione posta a fondamento della decisione e suffragata dagli accertamenti di fatto espletati dal C.T.U..
In ordine al quinto motivo va rilevato che, con adeguata e logica motivazione, la Corte territoriale, in base al disposto dell’art. 1385 co. 2 c.c., ha rapportato all’inadempimento contrattuale del B. la condanna dello stesso alla restituzione del doppio della caparra versata dalla promissaria acquirente, essendo venuta meno la causa della corresponsione della caparra stessa, una volta dichiarata la risoluzione del contratto con i conseguenti effetti restitutori (Cass. n. 13828/2000; n. 10953/2012).
Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali che i liquidano in Euro 3.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi oltre accessori di legge.

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