Ai fini dell’interruzione e sospensione dell’usucapione vige il principio della tassatività degli atti interruttivi, costituiti dalla perdita materiale del potere di fatto sulla cosa o da specifici atti giudiziali, per cui la mera diffida a riconsegnare la res da altri posseduta, non può ritenersi atto idoneo a sospendere o interrompere il possesso ai fini dell’usucapione ex artt. 2943 e 1165 c.c. cioè la perdita materiale del potere di fatto sul bene.
Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 17 dicembre 2013 – 20 gennaio 2014, n. 1071
Presidente Goldoni – Relatore Bursese
Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato il 17.4.1989 C.F. evocava in giudizio A.V. e L.V.M. , esponendo di essere proprietario di un fondo sito nella via (omissis) , confinante ad Est con il fondo di proprietà dei convenuti e che entrambi i fondi erano gravati da reciproca servitù di passaggio per raggiungere le aree destinate al parcheggio dei veicoli, come stabilito nell’atto pubblico d’acquisto stipulato in data 3.6.1968 notaio Ielo e in conformità con l’art. 40 della legge regionale n. 19/72. Deduceva quindi che i convenuti avevano realizzato un muro di confine tra i due fondi, che impediva l’esercizio della servitù in questione, per cui chiedeva la loro condanna ad eliminare ogni ostacolo impeditivo del suo diritto di passaggio, oltre al risarcimento del danno.
Si costituivano gli A. – L.V. eccependo la prescrizione estintiva ventennale della servitù in questione, rilevando nel merito l’insussistenza della servitù stessa e la carenza di utilitas.
L’adito Tribunale di Gela, con sentenza n.307/03 rigettava la domanda del Cantaro, ritenendo in specie che la tale servitù doveva ritenersi prescritta per non uso ultraventennale di cui all’art. 1073 c.c..
Avverso la predetta sentenza proponeva appello il Cantaro deducendo che in ogni caso il termine prescrizionale in parola non si era verificato perché il dies a quo non decorreva all’atto di stipula del menzionato rogito di vendita, che prevedeva la nascita della servitù in discorso, ma solo dall’approvazione da parte della competente Commissione edilizia di Mazzarino del progetto edilizio definitivo relativo al terreno acquistato e cioè dalla data del 12.9.1968. L’adita Corte d’Appello di Caltanissetta, con sentenza n. 170/2007 depos. in data 3.6.2007, rigettava il gravame, confermando la sentenza impugnata e ribadendo l’avvenuta prescrizione della servitù per decorrenza del termine ventennale previsto dall’ari. 1073 c.c., che era certamente maturato alla data di notifica dell’atto introduttivo del primo giudizio e ciò anche con riferimento ad un preteso atto interruttivo della prescrizione (cd. atto stragiudiziale di diffida di rispettare la destinazione della servitù di passaggio sull’area destinata a parcheggio) notificato in data 17.11.98 agli appellati, quando la prescrizione si era maturata; veniva altresì rigettata la domanda di risarcimento danni non ravvisandosi i presupposti per il suo accoglimento.
Per la cassazione la suddetta decisione ricorre il C. sulla base di 4 mezzi; gli intimati non hanno svolto difese.
Motivi della decisione
1 – Con il primo motivo si denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 167 c.p.c. nonché il vizio di motivazione. Secondo il ricorrente la domanda riconvenzionale contenente l’eccezione di prescrizione della servitù era stata tardivamente proposta nella comparsa di risposta in data 5.5.1989 e quindi successivamente alla prima udienza di comparizione; pertanto tale riconvenzionale doveva essere dunque dichiarata inammissibile dal primo giudice. A conclusione del motivo viene posto il seguente quesito di diritto:
“La domanda riconvenzionale del convenuto va proposta, nel procedimento avanti al pretore, con il primo atto responsivo ed entro la prima udienza di comparizione fissata dall’attore. La successione temporale degli atti processuali esclude che tempestività della riconvenzionale e la Corte territoriale avrebbe dovuto dichiarare inammissibile la domanda”.
2-Con il 2 motivo il ricorrente denunzia la violazione dell’art. 167 c.p.c. e la contraddittorietà della motivazione: la censura si riferisce alle conclusioni contenute nella comparsa di costituzione dei convenuti in primo grado in cui – secondo l’esponente – mancava la proposizione di una vera e propria domanda di estinzione della servitù di passaggio in parola, non essendo sufficiente indicare che il loro fondo era libero ed esente da vincoli reali.
Il motivo si conclude con il seguente quesito di diritto ex art.366 bis:
“il convenuto in actio confessoria…che intenda in via riconvenzionale eccepire la prescrizione della servitù…deve, a pena di inammissibilità, proporre l’eccezione nel primo atto difensivo e indicare nell’atto in modo specifico le richieste di merito e le proprie conclusioni”; Il convenuto altresì che intenda proporre domanda riconvenzionale ….deve specificatamente indicare nelle proprie conclusioni la domanda di merito relativa”;
“Ai fini dell’ammissibilità dell’eccezione di prescrizione di servitù ai sensi dell’art. 1073 c.c. non è sufficiente indicare nelle conclusioni che il fondo è libero ed esente da vicoli reali”.
Le due censure che precedono – congiuntamente esaminate essendo strettamente connesse – sono entrambe infondate.
Intanto i motivi in esame non risultano in precedenza formulati e non sono autosufficienti; sono dunque inammissibili. D’altra parte i convenuti odierni intimati non hanno proposto – come risulta dagli atti, direttamente esaminabili trattandosi di errores in procedendo – una domanda riconvenzionale vera e propria di declaratoria dell’avvenuta prescrizione della servitù, quanto piuttosto di un’eccezione di prescrizione, comunque proponibile in base alla legge processuale vigente ratione temporis. Secondo questa S.C.: “L’eccezione di prescrizione, trattandosi di eccezione in senso proprio, essendo rivolta unicamente al rigetto della domanda avversaria, può essere proposta anche in grado di appello ai sensi dell’art. 345 c.p.c. nel testo anteriore alla legge 26 novembre 1990, n. 353, art. 52” (Cass. 3, n. 1074 del 01/02/2000; Cass. Sez. 3, n. 1074 del 01/02/2000). Nella fattispecie dunque la formulazione della predetta domanda o eccezione di prescrizione ha il solo fine di paralizzare la pretesa avversaria (Cass. n. 4629 del 22.2.13; Cass. n. 14765 del 03/09/2012).
3 – Con il 3 motivo l’esponente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1029, 1062, 1073 c.c. nonché il vizio di motivazione: a suo avviso “la Corte territoriale ha fatto malgoverno delle carte processuali, pervenendo alla conclusione che, prendendo in esame la successione cronologia degli atti processuali ed extraprocessuale, sia intervenuta la prescrizione estintiva del diritto di servitù”. Invero emerge proprio dagli atti che la domanda introduttiva venne proposta prima della scadenza del termine previsto dall’art. 1073 c.c..
Invero il dies a quo non decorreva – come ritenuto dalla Corte – dalla data del 31.5.1968 (data del parere favorevole della Commissione Edilizia); trattasi di presupposto erroneo “in quanto il parere della Commissione edilizia del 31.5.68 non costituiva parametro temporale utile e certo, trattandosi di servitù per un vantaggio futuro ad un fondo, secondo il disposto dell’art. 1029 c.c., che prescrive che la servitù non abbia effetto se non dal giorno in cui la costruzione non sia eseguita”. In effetti occorreva a tal fine fare riferimento al fatto che la costruzione non era stata iniziata alla data del 6.6.69 e quindi anche a voler seguire il percorso motivazionale della Corte d’Appello, a quella data non si era verificata la situazione giuridica determinante la sussistenza della servitù, ciò che sarebbe avvenuto solo con la realizzazione della costruzione. La censura si conclude con il seguente articolato quesito di diritto di cui all’art. 366 bis c.p.c.:
“In tema di servitù futura ai sensi dell’art. 1029 c.c. il termine di prescrizione ex art. 1073 c.c. decorre dalla data di costruzione e non di rilascio delle autorizzazioni amministrative; la domanda giudiziale è tempestiva se proposta nel termine di cui all’art. 1073 c.c.; l’atto interruttivo della prescrizione ex art. 2943 c.c. può essere costituito anche dalla dichiarazione ricettizia che manifesti da parte del titolare del diritto l’intenzione di esercitare tale diritto anche mediante lettera raccomandata di diffida all’eliminazione di ostacoli all’esercizio della servitù”.
Secondo l’esponente, pertanto, nella fattispecie si verserebbe nell’ipotesi di costituzione di “servitù futura” ex art. 1029 c.c. (servitù per vantaggio futuro) per cui la servitù sorgeva dalla data di costruzione dell’edificio e non da quella precedente, di rilascio delle autorizzazioni e concessioni amministrative ad aedificandum. Ma tale doglianza non ha pregio ed è anzi inammissibile, trattandosi di motivo nuovo, che non risulta in precedenza mai proposto.
È peraltro il caso di ricordare in questa sede, che ai fini dell’interruzione e sospensione dell’usucapione vige il principio della tassatività degli atti interruttivi, costituiti dalla perdita materiale del potere di fatto sulla cosa o da specifici atti giudiziali, per cui la “mera diffida a riconsegnare la res da altri posseduta, non può ritenersi atto idoneo a sospendere o interrompere il possesso ai fini dell’usucapione ex artt. 2943 e 1165 c.c. cioè la perdita materiale del potere di fatto sul bene.
Secondo questa S.C. “in tema di usucapione, poiché, con il rinvio fatto dall’art. 1165 cod. civ. all’art 2943 cod. civ., risultano tassativamente elencati gli atti interruttivi del possesso, non è consentito attribuire efficacia interruttiva ad atti diversi da quelli stabiliti dalla legge, con la conseguenza che non può riconoscersi tale efficacia se non ad atti che comportino, per il possessore, la perdita materiale del potere di fatto sulla cosa, ovvero ad atti giudiziali diretti ad ottenere “ope iudicis” la privazione del possesso nei confronti del possessore usucapente” (Cass. n. 16234 del 25/07/2011).
4 – Con il 4 motivo infine l’esponente denunzia la violazione di cui agli artt. 2043, 2056 e 1126 c.c. nonché il vizio di motivazione:
L’esponente si duole del rigetto della domanda di risarcimento del danno conseguente alla lesione della servitù, che a suo dire non si poteva ritenere assorbita dalla declaratoria di prescrizione dell’actio confessoria servitutis. Peraltro il supposto danno poteva essere comunque liquidato in via equitativa e quindi la domanda non era generica come ritenuto dal giudice a quo.
Il motivo si conclude con il seguente quesito:
“il risarcimento del danno conseguente alla lesione di diritto del creditore può essere esercitato nel termine di prescrizione del diritto leso e può essere determinato, in assenza di criteri certi di liquidazione ai sensi dell’art. 1226 c.c. ed in relazione al comportamento delle parti, limitato o ridotto ai sensi dell’art. 2056 c.c.”.
La doglianza non ha pregio. Occorre rilevare che la Corte ha ritenuto la domanda di risarcimento dei danni di “assoluta genericità ….per la mancanza di qualunque allegazione specifica sia in ordine alla natura che all’entità dei danni reclamati””. A fronte di tale assorbente considerazione, non sembrerebbe potersi invocare – come fa il ricorrente – una possibile quanto generica valutazione equitativa del danno stesso, ai sensi dell’art. 1226 c.c. perché l’interessato ha pur sempre l’onere di allegare gli elementi di fatto costituenti i fattori costitutivi dell’ammontare dei danni liquidandi, ciò che nella fattispecie egli non ha mai fatto.
Invero, secondo questa S.C.: “…. la liquidazione del danno in via equitativa, che può aver luogo soltanto in caso di impossibilità o difficoltà di una precisa prova sull’ammontare e sull’entità del danno subito, non esonera l’interessato dall’obbligo di offrire gli elementi probatori sulla sussistenza del medesimo – la quale costituisce il presupposto indispensabile per una valutazione equitativa – per consentire che l’apprezzamento equitativo sia, per quanto possibile, limitato alla funzione di colmare solo le inevitabili lacune al fine della precisa liquidazione del danno (Cass. n. 15585 del 11/07/2007; Cass. n. 13288 del 07/06/2007; Cass. n. 8213 del 04/04/2013).
In definitiva il ricorso dev’essere rigettato. Nulla per le spese processuali non avendo gli intimati svolto alcuna attività difensiva.
P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso.