La pendenza di un giudizio, relativamente alla legittimità di una delibera assembleare, non paralizza la facoltà del condominio di nuove determinazioni sul medesimo oggetto (magari, e per esempio, a fini di revoca della delibera contestata). Ma la reiterabilità non implica la legittimità della nuova delibera, qualunque ne sia il contenuto, e neppure implica la cessazione della materia del contendere nell’ambito del giudizio già pendente. Ad entrambi i fini è necessario che il provvedimento finale sia conforme alla legge, con l’ovvia implicazione che tale conformità è suscettibile di verifica giudiziale, ad entrambi gli effetti.
Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 2 aprile – 28 luglio 2014, n. 33227
Presidente Ippolito– Relatore Leo
Ritenuto in fatto
1. È impugnata la sentenza del 21/12/2012 con la quale la Corte d’appello di Milano, in parziale riforma della sentenza pronunciata dal Tribunale di Milano in data 19/02/2008, ha rilevato l’estinzione per prescrizione del reato ascritto all’odierno ricorrente, confermando le statuizioni civili di condanna della decisione di primo grado.
A.R. era stato perseguito per il delitto di cui al comma 2 dell’art. 388 cod. pen., avendo dato esecuzione, nella propria qualità di amministratore di un condominio milanese, ad una delibera assembleare che comportava l’esecuzione di lavori su parti comuni, sebbene fosse stata disposta dal giudice civile la sospensione dell’esecuzione di precedenti delibere con il medesimo oggetto.
In sintesi era accaduto che l’assemblea condominiale avesse approvato, con due specifiche determinazioni (del febbraio 2002 e dell’aprile 2003), un piano di costruzione di numerosi garage sotterranei, che avrebbe comportato la demolizione del giardino esistente, caratterizzato dalla presenza di piante di alto fusto, in vista di una successiva ricostruzione con piante di genere diverso. Una parte dei condomini si era opposta, ottenendo dal competente giudice civile, come accennato, due provvedimenti di sospensione cautelare, deliberati il 7/06/2003 ed il 7/11/2003 (ciascuno con riguardo ad una delle due delibere).
Il 20/04/2004, in forza di un contratto di appalto rapidamente predisposto alcuni giorni prima (sia pure sotto condizione sospensiva), ed in formale esecuzione di una terza e sopravvenuta delibera assembleare (che integrava la condizione), i lavori erano stati avviati, con abbattimento dei primi cinque alberi.
I condomini contrari all’opera avevano però ottenuto l’intervento della polizia, e successivamente il cantiere era stato oggetto di provvedimenti di sequestro dell’autorità giudiziaria penale.
La Corte territoriale, rilevata la prescrizione del reato, ha osservato come a suo avviso non sussistessero i presupposti di un proscioglimento nel merito, e come anzi il fatto illecito dovesse considerarsi provato. Affrontando l’argomento essenziale proposto dall’appellante, la Corte aveva escluso la rilevanza della nuova delibera assembleare assunta prima dell’inizio dei lavori, che – secondo la Difesa – recepiva nel progetto i “suggerimenti” espressi dal consulente tecnico di ufficio nominato nel giudizio pendente a seguito dell’impugnativa delle delibere precedenti (in sostanza, la realizzazione finale di un giardino con caratteristiche similari a quelle dello spazio preesistente). In sostanza – e secondo la Corte – l’obbligo dell’amministratore di dar corso alla nuova delibera non lo autorizzava a violare i provvedimenti sospensivi ancora in atto per le delibere precedenti, privando così di efficacia il pronunciamento cautelare del giudice.
Dai rilievi sinteticamente richiamati è discesa la decisione di confermare le statuizioni di condanna al risarcimento dei danni in favore di Legambiente e dei quattro condomini che si erano costituiti parte civile nei confronti dell’imputato.
2. Contro il provvedimento impugnato il ricorrente propone varie doglianze, precedute da un’ampia premessa in fatto.
In sintesi, nell’ambito del procedimento instaurato con l’impugnazione delle prime due delibere, era stata disposta una consulenza tecnica, volta a stabilire se il progetto compromettesse il decoro architettonico del caseggiato. Il consulente avrebbe dato, depositando la propria relazione, una risposta negativa al quesito, rilevando tuttavia, in senso critico, come il progetto di ricostruzione del giardino non prevedesse il ripristino di una piantumazione con le caratteristiche proprie di quella precedente. Il Giudice aveva stabilito di sentire direttamente il consulente, fissando allo scopo una udienza per il 23/04/2014. Nelle more, e precisamente in data 15/04/2004, i condomini favorevoli all’opera avevano approvato una nuova delibera, che secondo il ricorrente “recepiva” le osservazioni del perito, con la previsione di un sostanziale ripristino delle specie arboree preesistenti (circostanza che sarebbe stata confermata dal consulente in una udienza successiva ai fatti per cui è processo). L’appalto era stato addirittura già conferito, sia pure alla condizione sospensiva dell’approvazione della nuova delibera, e dunque i lavori erano iniziati pochi giorni dopo, anche dato che la citata delibera non era stata impugnata (rectius, non ancora impugnata) e che aveva efficacia immediatamente esecutiva.
La correttezza di operato dell’A. sarebbe stata riconosciuta anche dal giudice civile investito di un ricorso ex art. 1129 cod. civ., che aveva rigettato il ricorso medesimo, negando ogni irregolarità o parzialità nel comportamento dell’interessato.
2.2. Su queste premesse, il ricorrente deduce vizio di motivazione e violazione di legge, lamentando che la Corte territoriale non abbia rilevato la liceità del comportamento tenuto da A. .
Questi, in sostanza, avrebbe dato esecuzione ad un progetto diverso da quello impugnato, come imposto dall’art. 1130 cod. civ., visto che la nuova delibera non avrebbe avuto carattere criminoso ed oltretutto, in sostanza, avrebbe recepito le critiche del consulente tecnico nominato nel giudizio pendente.
Non si potrebbe far carico ad A. di avere dato esecuzione ad una delibera diversa da quelle sospese.
2.3. Con un secondo motivo, proposto a norma dell’art. 606, comma 1, lettere b) e c), cod. proc. pen., si denunciano vizi di motivazione e violazione degli artt. 1130 e 2377 cod. civ..
La norma citata da ultimo, che concerne le società ma sarebbe applicabile anche ai condomini, stabilisce che una delibera assembleare impugnata non possa comunque essere annullata, quando venga sostituita da altra conforme alla legge, con previsione che, in tali casi, il giudice si limiti a provvedere sulle spese di lite e sul risarcimento del danno. La giurisprudenza civile ritiene che in casi del genere cessi la materia del contendere. D’altra parte non potrebbe ritenersi che la pendenza di una lite concernente la prima delibera paralizzi il meccanismo previsto dall’art. 2377, il quale avrebbe proprio la funzione di spingere al recepimento delle critiche mosse da soci o condomini dissenzienti, attraverso nuove delibere che dovrebbero poi trovare esecuzione secondo le regole ordinarie.
2.3. Con una serie di rilievi in fatto l’appellante aveva contestato la ricostruzione che della sua condotta era stata data nel capo di imputazione. Con un terzo motivo di ricorso la Difesa di A. lamenta – evocando il vizio di carenza di motivazione – che la Corte territoriale non avrebbe dato puntuale risposta a quei rilievi.
2.4. Con un ultimo motivo si lamentano carenza assoluta di motivazione e violazione di legge relativamente alle statuizioni civili della sentenza impugnata, che sarebbe sostanzialmente immotivata, al pari di quella del Tribunale, sulla identificazione delle ragioni di danno, sulla natura del danno risarcito, nonostante le considerazioni critiche espresse con l’atto di appello.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è infondato, e deve dunque essere respinto, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
2. A A.R. è contestata una condotta rilevante a norma del comma 2 dell’art. 388 cod. pen., cioè quella di avere eluso i provvedimenti giurisdizionali di sospensione dell’esecuzione delle delibere assembleari che avevano disposto la realizzazione di box sotterranei nella proprietà del condominio amministrato dallo stesso A. , previa distruzione parziale del giardino esistente ed abbattimento degli alberi di altro fusto che vi erano collocati.
La difesa tende a giustificare il comportamento del ricorrente quale atto dovuto in esecuzione della nuova ed ultima delibera sul medesimo oggetto. Ma si tratta di una tesi infondata. Anzi, la sequenza “reattiva” innescata dall’atteggiamento assunto dal giudice civile nella causa concernente le delibere antecedenti – con la fulminea predisposizione di un contratto di appalto, la nuova assemblea condominiale, il rapidissimo avvio dei lavori, l’irreparabile abbattimento degli alberi difesi dai condomini di minoranza, il tutto senza neppure attendere l’imminentissima escussione a chiarimenti del consulente -ha rappresentato agli occhi dei giudici di merito, che hanno espresso in proposito un ragionamento privo di incongruenze o altri vizi qui sindacabili, la manovra elusiva che implica la corrispondenza del fatto alla figura legale.
2.1. Il dato di fatto essenziale ed ineliminabile è costituito dalla portata delle statuizioni assunte nel giudizio sulle delibere originarie. Non si trattava semplicemente della causa in corso sulla legittimità di quelle delibere, e dei provvedimenti ordinatori assunti riguardo all’istruzione ed alla progressione del giudizio, poiché il giudice competente, per ben due volte, aveva disposto la sospensione della relativa esecuzione, ed ordinato dunque, in sostanza, che non si procedesse ai lavori di abbattimento del giardino esistente.
Gli adempimenti successivi, di alcuni condomini e dell’amministratore, non sono stati illeciti di per sé, ma non legittimano, ed anzi qualificano, il comportamento attuativo della irreparabile disobbedienza all’ordine del giudice, cioè, appunto, l’avvio dei lavori. Va ricordato come la giurisprudenza abbia chiarito che la fattispecie in contestazione è integrata anche quando il provvedimento giudiziale abbia imposto all’interessato un obbligo di non fare (Sez. 6, Sentenza n. 27409 del 09/05/2001, rv. 219973).
2.2. Se bastasse la reiterazione di una delibera assembleare per consentire il superamento della resistenza opposta a quella precedente, ed il blocco imposto alla sua esecuzione, le norme di tutela della proprietà poste a disciplinare il fenomeno condominiale perderebbero ogni effettività, e soprattutto perderebbe effettività la tutela giurisdizionale, che nei casi urgenti si attua proprio mediante la sospensiva.
Il ricorrente assume anzitutto che la possibilità di reiterazione della delibera impugnata sarebbe dimostrata, in generale, dal comma 8 dell’art. 2377 cod. civ. (considerato applicabile anche ai condomini, sebbene sia dettato riguardo alle società), il quale prevede appunto il caso della sostituzione di una determinazione sub iudice con altra “presa in conformità della legge e dello statuto”. In tale caso – dispone la norma – la delibera impugnata non potrà essere annullata, ed al giudice resterà da provvedere solo sulle spese di lite (ponendole di norma a carico della società), e sul risarcimento dell’eventuale danno.
La “conformità” alla legge della terza delibera assembleare sarebbe documentata, d’altra parte, dalla corrispondenza tra il relativo progetto di ricostruzione del giardino ed i “suggerimenti” espressi, in proposito, dal consulente nominato nella procedura pendente.
Entrambi i passaggi sono arbitrari.
È ovvio che la pendenza di un giudizio, relativamente alla legittimità di una delibera assembleare, non paralizza la facoltà del condominio di nuove determinazioni sul medesimo oggetto (magari, e per esempio, a fini di revoca della delibera contestata). Ma la reiterabilità non implica la legittimità della nuova delibera, qualunque ne sia il contenuto, e neppure implica la cessazione della materia del contendere nell’ambito del giudizio già pendente. Ad entrambi i fini è necessario che il provvedimento finale sia conforme alla legge, con l’ovvia implicazione che tale conformità è suscettibile di verifica giudiziale, ad entrambi gli effetti.
Il provvedimento ex art. 2377 cod. civ. è destinato anzitutto ad esplicare i suoi effetti nel giudizio pendente, e spetta al giudice, nel contraddittorio delle parti, stabilire se sia o non cessata la materia del contendere, anche nella prospettiva incidentale, e cioè al fine di valutare se si legittimi l’ulteriore inibizione ad eseguire la delibera impugnata. La difformità della nuova delibera dal modello indicato potrà poi essere prospettata in un nuovo e diverso giudizio, volto a prospettarne la illegittimità. Con la possibilità, ovviamente, che nel concorso dei presupposti di legge ne sia ordinata la sospensione.
Si tratta di un meccanismo forse laborioso (destinato per altro ad operare in assenza di propensione degli interessati alla mediazione), ma comunque indispensabile per impedire che una parte si faccia ragione da sola, stabilendo (unilateralmente ed irrimediabilmente) che sono venute meno le condizioni apprezzate dal giudice e ritenute tali da impedire l’immediata esecuzione di un certo deliberato.
Poco importa se sia accertato, ex post, che la nuova determinazione è “conforme a legge”, con le conseguenza sopra descritte. Il sistema è posto infatti a protezione della effettività del provvedimento assunto dal giudice. La giurisprudenza ha stabilito ad esempio che la violazione del dovere di osservanza del provvedimento cautelare rileva anche quando lo stesso, in seguito, abbia perso la propria efficacia ai sensi dell’art. 669-nonies cod. proc. civ., proprio in quanto la norma incriminatrice non tutela le posizioni sostanziali sottese alla controversia, ma l’effettività dell’ordine giudiziale. Si noti che la tutela non si spegne nel momento in cui maturano le condizioni per l’inefficacia indicate nella citata norma processuale, essendo invece necessario, come del resto stabilisce espressamente la legge, che dette condizioni siano accertate dal giudice nel contraddittorio tra le parti, con un conseguente provvedimento dichiarativo, o di revoca della sospensione (Sez. 6, Sentenza n. 65 del 25/10/2004, rv. 230861).
2.3. Nella specie il significato elusivo della condotta appare di immediata evidenza. A. ed i condomini di riferimento avevano deciso che un progetto (a loro dire) conformato sui rilievi del consulente tecnico sarebbe stato conforme alla legge, ed avevano per proprio conto “revocato” la sospensiva e stabilita la sopravvenuta carenza di interesse. Una rilegittimazione indimostrata: emerge oltretutto una certa cautela del giudice procedente nell’approccio al lavoro del perito, e d’altra parte il contratto di appalto e la nuova delibera non avevano atteso neppure l’escussione disposta dal Giudice. In ogni caso, una sopravvenienza ininfluente, per le ragioni appena dette: non spettava ad A. ed ai condomini di maggioranza celebrare da soli e spingere in fase esecutiva il giudizio sulla integrazione della fattispecie delineata all’art. 2337 cod. civ., e comunque non spettava loro una revoca di fatto del provvedimento sospensivo.
Né vale interrogarsi sugli effetti che avrebbe potuto avere l’eventuale “consolidamento” della nuova delibera attraverso un ipotetico consenso totalitario. A. ed i condomini di maggioranza, infatti, avevano avuto cura di realizzare il fatto compiuto (con distruzione del giardino parzialmente evitata solo in forza dei successivi sequestri penali) avviando l’esecuzione della delibera in questione molto prima che scadessero i termini per la relativa impugnazione (poi puntualmente intervenuta).
2.4. Così stando le cose, si palesa l’irrilevanza delle notazioni difensive sul fatto, a prescindere dalla verifica del loro fondamento. Ad esempio, che non fosse stato A. a stipulare il contratto di appalto, addirittura prima che la terza delibera fosse approvata, è cosa appunto priva di rilievo. Al ricorrente i Giudici del merito hanno rimproverato d’aver dato esecuzione ad una delibera nata per eludere l’ordine di sospensione, ed hanno in questo senso accertato il fatto, che del resto l’interessato non pare aver negato (anche nel ricorso la strategia è ancora definita come “intelligente e ragionevole”).
D’altro canto, e sempre a titolo di esempio, si palesa l’irrilevanza delle indicazioni difensive circa l’urgenza dell’avvio dei lavori. V’era un ordine di sospensione, e non si trattava di stabilire se i lavori fosse urgenti per ragioni climatiche, quanto piuttosto di valutare se potessero essere eseguiti nelle condizioni indicate. Lo stesso ricorrente ha evitato, con opportuno equilibrio, di evocare una sorta di giustificazione, che avrebbe potuto scriminare il comportamento solo nelle condizioni indicate all’art. 54 cod. pen..
Il ricorrente lamenta, da ultimo, che la Corte territoriale ha trascurato il provvedimento favorevole che aveva chiuso un procedimento promosso ex art. 1129 cod. civ. per la revoca giudiziale di A. quale amministratore del condominio interessato. Si tratta nuovamente di un fatto irrilevante, tra l’altro sopravvenuto alle condotte de quibus, e dunque insuscettibile di incidere sulla percezione di illiceità della condotta da parte dell’interessato. Il Tribunale milanese aveva ritenuto insussistenti le specifiche condizioni che, nella norma citata, legittimano l’intervento d’autorità in senso contrario alla volontà della maggioranza condominale, questione ovviamente diversa da quella in esame. È certo vero che il Tribunale, nell’occasione, aveva voluto qualificare lecito, se non addirittura doveroso, il comportamento tenuto dall’amministratore. Non si tratta per altro – ed a prescindere da ogni rilievo sulla omogeneità delle basi cognitive (appalto e terza delibera sembrano essere stati considerati indipendentemente dalle cadenze del giudizio in corso sulle delibere antecedenti) – di un provvedimento munito di qualche efficacia preclusiva nell’ambito del presente giudizio.
2.5. In definitiva, le decisioni dei Giudici milanesi, ed in particolare quella impugnata (che ha ricusato la richiesta di proscioglimento nel merito), risultano applicative di un corretto principio di diritto. Qualora il giudice abbia sospeso l’esecuzione di una delibera dell’assemblea condominale, della quale sia contestata nel merito la legittimità, è illecito ogni comportamento elusivo della sospensione, e dunque è illecita l’esecuzione di una delibera successiva con il medesimo oggetto, ancorché asseritamente emendata dei vizi originari, prima sia disposta la revoca giudiziale della sospensiva o, comunque, stabilita la cessazione della materia del contendere.
3. A proposito delle statuizioni civili della sentenza, che sul punto conferma e richiama la decisione di primo grado, va detto che la Corte territoriale ha correttamente replicato alla principale obiezione sviluppata dalla difesa di A. , e cioè che i danni sarebbero imputabili al condominio e non al suo amministratore. Si è notato, infatti, come nella specie si discuta di danno derivato da comportamento penalmente illecito, e dunque direttamente e personalmente imputabile all’odierno ricorrente, in piana applicazione dell’art. 185 cod. pen. Poco rileva, nella sede presente, se del danno fossero corresponsabili, secondo la legge civile, anche ulteriori persone, ed in particolare i condomini che avevano sostenuto ed attuato la manovra elusiva.
È vero poi che la motivazione relativa all’identificazione dei soggetti danneggiati, e del quantum risarcibile, appare particolarmente stringata, e per certi versi cumulativa. Dalla analitica descrizione dei fatti, per altro, emergono con buona evidenza le ragioni di accoglimento delle singole domande civili. Va anche considerato che i motivi d’appello, sul punto, erano stati del tutto generici, non sollevando questioni riguardo all’individuazione dei danneggiati.
La quantificazione è stata operata, d’altra parte, in termini equitativi, e non appare priva di ragionevolezza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.