Il bilanciamento tra esigenze potenzialmente confliggenti va operato in concreto, verificando – in coerenza con la tipologia del bene comune e con le reali possibilità dei condomini di fruire del predetto bene – se la modifica apportata dal singolo condomino pregiudichi il diritto di uso degli altri, ovvero alteri la destinazione del bene comune, occorrendo che la limitazione del diritto del singolo trovi giustificazione nella riduzione delle reali possibilità d’uso in capo agli altri condomini.
Al contempo, la valutazione della destinazione della cosa, di cui è vietata l’alterazione, deve essere condotta in una prospettiva dinamica del bene considerato. Oggetto della tutela apprestata dall’art. 1102 cod. civ. è la preservazione della destinazione complessiva del bene comune, non la mera immodificabilità materiale dello stesso, e il relativo giudizio, che va formulato caso per caso, tenuto conto delle situazioni peculiari, si risolve in un giudizio di fatto sindacabile in sede di legittimità solo per limiti motivazionali.
Corte di Cassazione, sez II Civile, sentenza 3 luglio – 22 settembre 2014, n. 19915
Presidente Triola – Relatore Picaroni
Ritenuto in fatto
1. – È impugnata la sentenza della Corto d’appello di Firenze, depositata il 6 giugno 2013, che, in riforma della sentenza del Tribunale di Firenze, ha accolto la domanda proposta da Ca.Pa. nei confronti di A.V. e C.C. , di risoluzione del contratto di compravendita di immobile per inadempimento dei convenuti; ha condannato i predetti, in solido, al pagamento dell’importo di Euro – 79.156,08, comprensivi di interessi e rivalutazione, a titolo di restituzione del prezzo e risarcimento danni, detratte le somme già ricevute in esecuzione della sentenza di primo grado; ha condannato l’attrice alla restituzione dell’immobile.
1.1. – Nel 2001 la sig.ra Ca. aveva agito per la risoluzione del contratto con il quale ella aveva acquistato l’unità immobiliare adibita a civile abitazione sita nel Comune di (omissis) , alla via (omissis) , che si era rivelata parzialmente altrui. Infatti in data il 3 febbraio 1995, pochi giorni prima del rogito di acquisto, i venditori avevano ricevuto l’atto di citazione di causa petitoria introdotta dal condomino G.G. , che in precedenza aveva esperito azione possessoria contro i medesimi A. e C. . La controversia, nella quale l’attrice era stata chiamata in giudizio, si era poi estinta.
L’attrice aveva altresì dedotto di aver acquistato un bene diverso da quello pattuito (aliud pro alio), e conclusivamente aveva chiesto che fosse pronunciata la risoluzione del contratto per fatto e colpa dei venditori, con conseguente condanna in solido dei predetti al pagamento di L. 168.993.520, oltre a L. 65.000.000 per l’arredamento e il mancato utilizzo del bene. In subordine, l’attrice aveva chiesto il risarcimento dei danni, comprensivi di rivalutazione ed interessi, con rifusione delle spese di lite e di CTU.
1.2. – I convenuti avevano eccepito la decadenza e prescrizione dell’azione, chiedendo in ogni caso il rigetto nel merito delle domande.
1.3. – Il Tribunale aveva accolto la domanda subordinata di quanti minoris e di risarcimento del danno, condannando i convenuti in solido a pagare all’attrice Euro 34.000,00, oltre rivalutazione dal mese di ottobre 2004 alla sentenza e interessi legali fino al soddisfo, oltre alle spese di lite e di CTU.
La sig.ra Ca. proponeva appello, i sigg.ri A. e C. resistevano e proponevano appello incidentale.
2. – La Corte d’appello, dopo aver disposto CTU per valutare l’abitabilità dell’immobile, accoglieva sia l’appello principale sia l’appello incidentale, limitatamente alla domanda di restituzione dell’immobile.
2.1. – Secondo la Corte distrettuale la domanda di risoluzione del contratto era ammissibile, in quanto il giudizio precedente, intentato dal condomino G. , nel quale la sig.ra Ca. era stata chiamata in causa e non aveva proposto la predetta domanda, si era estinto, sicché non si era formata alcuna preclusione.
Era documentato e pacifico che i venditori, pur consapevoli dell’azione petitoria parziale promossa sull’immobile in oggetto dal condomino G. , non avevano informato l’acquirente.
Era inoltre pacifico, e comunque risultava dalla CTU, che i venditori avevano proceduto a ristrutturare l’immobile, trasformandolo da deposito in appartamento, anche mediante l’abbassamento di una porzione della pavimentazione originaria di circa 60 cm., in modo da ricavare un’altezza sufficiente per realizzare un ampio disimpegno e il locale adibito a bagno, cosi aumentando la volumetria a discapito del proprietario del sottosuolo, e cioè del condominio, secondo la disciplina generale di cui agli artt. 1117 cod. civ. e ss..
Ricorrevano pertanto gli estremi della vendita di cosa parzialmente altrui e ciò concretava inadempimento da ritenersi grave, sia per l’obiettivo pregiudizio da esso derivante, sia per il comportamento dei venditori, che avevano taciuto la circostanza dello scavo e l’introduzione del giudizio petitorio. Sotto il primo profilo, la Corte d’appello evidenziava che l’acquirente avrebbe dovuto affrontare lavori edilizi per riportare la situazione alla legittimità, vedendo cosi diminuire la volumetria di una porzione rilevante dell’appartamento, e, soprattutto, la riduzione dell’altezza dei locali interessati dallo scavo al di sotto della soglia di legge necessaria ai fini dell’abitabilità.
Sussistevano dunque tutti i presupposti per l’applicazione del rimedio risolutorio ai sensi dell’art. 1480 cod. civ., compresa l’inconsapevolezza dell’acquirente, al momento della stipula, delle circostanze indicate, potendosi affermare che l’acquirente non avrebbe stipulato se avesse saputo della parziale altruità del bene.
Quanto all’appello incidentale, la Corte distrettuale riconosceva il diritto dei venditori alla restituzione dell’immobile, quale conseguenza della pronunciata risoluzione del contratto, ai sensi dell’art. 1458 cod. civ..
3. – Per la cassazione della sentenza d’appello hanno proposto ricorso C.C. e A.V. , sulla base di tre motivi.
Resiste con controricorso Ca.Pa. , che ha depositato memoria in prossimità dell’udienza.
Considerato in diritto
1. – Il ricorso è fondato e va accolto.
1.1. – Con il primo motivo è dedotta violazione degli artt. 1117, 840, 1102 cod. civ., in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ..
Si contesta l’affermazione della Corte d’appello, secondo cui lo scavo di 60 cm. del pavimento dell’appartamento sito al
piano terra di edificio in condominio integra un’attività lesiva della proprietà condominiale.
1.2. – I ricorrenti danno atto del richiamo effettuato dalla Corte d’appello alla sentenza n. 8119 del 2004 di questa Corte, che ha statuito nel senso sopra indicato a proposito di uno scavo di 40 cm. , rilevando che l’abbassamento del piano di calpestio da parte del condomino proprietario dell’unità immobiliare posta a piano terra, non costituisce ipotesi di uso della cosa comune, consentita dall’art. 1102, primo comma, cod. civ., ma configura un’appropriazione del sottosuolo che impedisce agli altri condomini di farne parimenti uso, secondo il loro diritto, in violazione dello stesso art. 1102 cod. civ..
Nondimeno, secondo i ricorrenti, l’orientamento della giurisprudenza di legittimità che è alla base di tale affermazione deve essere rivalutato nella parte in cui sancisce un vero e proprio automatismo, svincolato dalla verifica in concreto dei presupposti indicati dall’art. 1102 cod. civ..
1.3. – Il motivo è sintetizzato, pur in assenza di specifica previsione applicabile ratione temporis, nei seguenti termini: “[se,] in materia di opere eseguite nel suo piano o porzione di piano, al singolo condomino è vietato attrarre la cosa comune o una parte di essa nell’orbita della propria disponibilità esclusiva solo quando in tal modo il condomino pregiudichi in concreto agli altri condomini la misura di godimento del bene in comunione, o alteri la destinazione della cosa stessa, o crei in concreto danni alla cosa comune pregiudicandone o alterandone il valore economico”.
1.4. – La doglianza è fondata.
1.4.1. – L’applicazione automatica del divieto sancito dall’art. 1102, primo comma, cod. civ. alle attività poste in essere dal singolo condomino è già stata censurata da questa Corte, con la sentenza n. 14107 del 2012. Il caso esaminato riguardava la trasformazione del tetto in terrazza di proprio uso esclusivo da parte del condomino proprietario del piano sottostante al medesimo tetto comune dell’edificio. Si è affermata la liceità della trasformazione, a condizione che risulti salvaguardata, mediante opere adeguate, la funzione propria del tetto, di copertura e protezione delle sottostanti strutture, di modo che rimanga complessivamente mantenuta la destinazione principale del bene.
1.4.2. – Nella citata decisione, questa Corte ha affermato la necessità della verifica, in concreto, delle conseguenze dell’uso della cosa comune da parte del condomino, a partire da una lettura che riconduce il significato della proprietà comune delle parti dell’edificio, indicate nel catalogo dell’art. 1117 cod. civ., al profilo “funzionale”, del quale deve essere garantito il mantenimento, e valorizza il principio solidaristico, che impone una rilettura dell’art. 1102 cod. civ. ispirata a favorire lo sviluppo delle esigenze abitative. In questa prospettiva, il limite posto dalla citata norma all’ammissibilità dell’intervento modificativo del singolo condomino sulle parti comuni implica la verifica della effettiva alterazione della destinazione della cosa comune e del reale impedimento agli altri condomini di fare identico uso della medesima cosa.
1.4.3. – La sentenza n. 14107 del 2012 si sofferma dapprima sulla nozione di pari uso della cosa comune, e in proposito richiama il precedente costituito dalla sentenza n. 8808 del 2003 di questa Corte, secondo cui la predetta nozione “non va intesa nel senso di uso identico e contemporaneo, dovendo ritenersi conferita dalla legge a ciascun partecipante alla comunione la facoltà di trarre dalla cosa comune la più intensa utilizzazione, a condizione che questa sia compatibile con i diritti degli altri, essendo i rapporti condominiali informati al principio di solidarietà, il quale richiede un costante equilibrio fra le esigenze e gli interessi di tutti i partecipanti alla comunione” (massima ufficiale C.E.D.).
Si afferma in tal modo l’esigenza del bilanciamento tra diritto del singolo condomino all’uso della cosa comune, nella sua massima espansione, e diritto degli altri condomini ad accrescere il pari uso, là dove è chiaro che “lo sfruttamento esclusivo del bene da parte del singolo che ne impedisca la simultanea fruizione degli altri […] non è riconducibile alla facoltà di ciascun condomino di trarre dal bene comune la più intensa utilizzazione, ma ne integra un uso illegittimo in quanto il principio di solidarietà cui devono essere informati i rapporti condominiali richiede un costante equilibrio tra le esigenze e gli interessi di tutti i partecipanti alla comunione” (cosi Cass., sez. 2A, sentenza n. 17208 del 2008, in un caso di appropriazione da parte di un condomino di un’area esterna all’edificio, resa in tal modo inutilizzabile dagli altri).
Il bilanciamento tra esigenze potenzialmente confliggenti va dunque operato in concreto, verificando – in coerenza con la tipologia del bene comune e con le reali possibilità dei condomini di fruire del predetto bene – se la modifica apportata dal singolo condomino pregiudichi il diritto di uso degli altri, ovvero alteri la destinazione del bene comune, occorrendo che la limitazione del diritto del singolo trovi giustificazione nella riduzione delle reali possibilità d’uso in capo agli altri condomini.
1.4.4. – Al contempo, la valutazione della destinazione della cosa, di cui è vietata l’alterazione, deve essere condotta in una prospettiva dinamica del bene considerato. Oggetto della tutela apprestata dall’art. 1102 cod. civ. è la preservazione della destinazione complessiva del bene comune, non la mera immodificabilità materiale dello stesso, e il relativo giudizio, che va formulato caso per caso, tenuto conto delle situazioni peculiari, si risolve in un giudizio di fatto sindacabile in sede di legittimità solo per limiti motivazionali.
2 – Da tali premesse generali discende che la modifica realizzata dai ricorrenti, consistita nell’abbassamento del pavimento e del piano di calpestio per 60 cm., non è automaticamente sussumibile nella fattispecie dell’uso illegittimo della cosa comune, da identificarsi quest’ultima, secondo la giurisprudenza di legittimità consolidata, nella porzione di terreno su cui viene ad insistere l’intero fabbricato, vale a dire nell’area di terreno sita in profondità, sottostante la superficie alla base del fabbricato, sulla quale posano le fondamenta dell’immobile (ex plurimis, Cass. , sez. 2A, sentenza n. 8346 del 1998).
Per giungere a tale affermazione, occorreva l’accertamento dell’avvenuta alterazione della destinazione della cosa – vale a dire della funzione di sostegno alla stabilità dell’edificio (ex plurimis, Cass., sez. 2A, sentenza n. 22835 del 2006) -, ovvero l’accertamento della idoneità dell’intervento realizzato dai ricorrenti a pregiudicare l’interesse degli altri condomini al pari uso della cosa comune.
3. – L’accoglimento del primo motivo comporta l’assorbimento dei rimanenti, con i quali sono censurate le affermazioni della Corte d’appello in ordine alla parziale altruità dell’immobile oggetto di compravendita tra le parti, e alla mancata comunicazione all’acquirente dell’avvenuta realizzazione dello scavo. I motivi così posti risultano, infatti, dipendenti da quello investito da cassazione, e saranno riesaminati dal giudice del rinvio, individuato come in dispositivo, il quale provvederà a regolare anche le spese del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, assorbiti gli altri, cassa e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, ad altra sezione della Corte d’appello di Firenze.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, da atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale/incidentale, a norma del comma I-bis dello stesso art. 13.