Deve essere abbattuto il manufatto che impedisce l’esercizio del diritto di veduta se viene realizzato in violazione delle prescrizioni previste dall’art. 907 del codice civile che, disciplinando la distanza dalle vedute delle costruzioni, stabilisce che non possono realizzate costruzioni ad una distanza inferiore di tre metri dalle vedute.

 

Corte d’Appello di Palermo sentenza del 25-05-2015 n. 681
RAGIONI IN FATTO E IN DIRITTO DELLA DECISIONE
F.D. citava F.G. avanti al Tribunale di Palermo e, premesso di aver acquistato il 13 luglio 2007
l’appartamento sito in Palermo in via (…), dal quale esercitava un diritto di veduta sulla terrazza di
pertinenza dell’appartamento posto al terzo piano dello stesso stabile, di proprietà del G., esponeva
che questi aveva realizzato sul terrazzo una tettoia di legno, che le impediva l’esercizio della servitù
di veduta. Non avendo potuto ottenere la spontanea rimozione dell’opera da parte del convenuto, ne
chiedeva, pertanto, la condanna alla dismissione dell’intero manufatto.
Si costituiva il G. che, preliminarmente, eccepiva l’inammissibilità dell’azione, perché non
introdotta nei modi e nei tempi prescritti dall’articolo 703 c.p.c., nonché la decadenza della D. dalla
domanda, perché proposta oltre l’anno dalla data di esecuzione dell’opera; in subordine, eccepiva il
difetto di legittimazione attiva dell’attrice e, nel merito, si opponeva alla domanda, chiedendo, in via
riconvenzionale, la chiusura di una finestra posta sul tetto di copertura dell’intero edificio, aperta
dalla D. a servizio della sua proprietà esclusiva e senza il consenso dei condomini, e, altresì, la
rimozione di un gazebo collocato dalla stessa attrice sulla propria terrazza dopo aver forato, al fine
di ancorarlo al suolo, il pavimento posto a copertura dell’appartamento sottostante di proprietà del
convenuto.
Con sentenza n. 3438/07 del 19 settembre 2007, il Tribunale adito, accogliendo la domanda
principale della D., condannava il convenuto alla rimozione della tettoia da lui collocata nella
propria terrazza e rigettava le domande riconvenzionali.
Il Tribunale, in primo luogo, rigettava l’eccezione preliminare di inammissibilità dell’azione e di
decadenza dal diritto di proporla, richiamando la giurisprudenza della Cassazione secondo la quale
l’actio confessoria, come azione reale a difesa della servitù, trova suo fondamento solo se vi siano
contestazioni sulla legittimità dell’esercizio del diritto di servitù, laddove, se si è in presenza di
turbative o minacce che non implichino la contestazione della servitù, si è fuori dall’ambito di
applicazione della norma di cui all’articolo 1079 c.c. e al titolare spetta, oltre alla tutela possessoria,
l’azione di risarcimento di cui all’articolo 2043 c.c. ovvero, ai fini della riduzione in pristino con
l’eliminazione delle turbative molestie, quella di reintegrazione in forma specifica prevista
dall’articolo 2058 c.c. In questo quadro, il Tribunale riteneva che la domanda principale fosse diretta
a ottenere la condanna del convenuto alla dismissione della tettoia ostativa del diritto di veduta,
rigettando tutte le eccezioni preliminari. Nel merito, il Tribunale osservava che, secondo la costante
giurisprudenza di legittimità e di merito, sussisteva il principio d’ordine generale in base al quale le
norme sulle distanze legali in materia di vedute – in quanto compatibili con la disciplina della
comunione – sono applicabili nei rapporti tra le singole proprietà di un edificio condominiale,
quand’anche uno dei condomini utilizzi parti comuni dell’immobile nei limiti consentiti dell’articolo
1103 c.c.; ciò posto e sulla base della C.T.U. esperita in corso di istruzione, il Tribunale riscontrava
che la tettoia era stata installata in aderenza o in appoggio al muro perimetrale adiacente, senza
rispettare la prescritta distanza di 3 mt. dalla soglia del terrazzo dell’appartamento sovrastante di proprietà D., che risultava così titolare di una servitù di veduta anche in appiombo, costituita per
destinazione del padre di famiglia, ossia dell’originario costruttore dell’immobile condominiale, non
mancando altresì di rilevare che tale limitazione del diritto di veduta era ben visibile anche
dall’esame della documentazione fotografica allegata alla C.T.U. Pertanto, condannava il convenuto
a rimuovere la tettoia dal terrazzo e rigettava al contempo le domande riconvenzionali dello stesso
Gi.: quanto a quella diretta a conseguire la rimozione dei chiodi e di quant’altro posto sul tetto del
proprio appartamento per l’ancoraggio del gazebo sulla terrazza sovrastante della D., perché tale
installazione non aveva recato alcun danno alla sua proprietà, per le specifiche modalità di
installazione e rifinitura della struttura che impedivano infiltrazioni e altri danni alla sottostante
proprietà; e, quanto all’altra domanda, perché la finestra realizzata dall’attrice sul tetto di copertura
dell’edificio, per la sua struttura e per le sue dimensioni, non alterava la consistenza e la
destinazione del bene condominiale, non pregiudicava i diritti di uso né il godimento degli altri
condomini e non provocava alcun nocumento alla funzione di copertura del tetto.
Avverso la suddetta sentenza propone appello il G., al quale resiste la D.
All’udienza del 3 ottobre 2014 la causa è stata posta in decisione.
Con il primo motivo di appello, la parte si duole della violazione ed errata applicazione degli artt.
709 c.p.c. e 1079 c.c., sostanzialmente riproponendo l’eccezione di inammissibilità dell’azione
proposta dalla D’A. e ribadendo che la domanda doveva essere proposta ai sensi dell’articolo 703
c.p.c., cioè con ricorso da depositare entro il termine di decadenza di un anno dalla turbativa.
Il motivo non ha pregio, essendo in proposito sufficiente notare che la D. ha agito a tutela del
proprio diritto di servitù di veduta, e non semplicemente del possesso della veduta.
Con il secondo motivo, la parte si duole della violazione dell’articolo 112 c.p.c. in relazione
all’articolo 907 c.c. sostenendo che la decisione sarebbe stata resa ultra petita; rileva l’appellante che
sia la domanda che l’istruzione si erano incentrate sulla violazione del diritto di veduta della parte
attrice e, in funzione di questo, la D. aveva chiesto la rimozione della tettoia da lui collocata sul
proprio terrazzo. Di contro, il Tribunale aveva accolto la domanda principale, sul diverso
presupposto della violazione delle distanze legali.
Il motivo non ha pregio.
Va in primo luogo osservato che la domanda della D. trova il suo fondamento nella previsione
dell’art. 907 c.c., secondo il quale “quando si è acquistato il diritto di avere vedute dirette verso il
fondo vicino, il proprietario di questo non può fabbricare a distanza minore di tre metri, misurata a
norma dell’art. 905 c.c.”. E’ la norma dunque che ricollega il diritto di veduta alla distanza tra lo
sporto dal quale si esercita la veduta e la nuova costruzione sul fondo vicino e, in tale ottica, il
Tribunale ha valutato la sussistenza del diritto dell’attrice, riscontrando, alla luce della C.T.U., che il
Gi. non aveva rispettato la prescritta distanza nell’installare la tettoia nel suo terrazzo, impedendo il
pieno esercizio del diritto di veduta da parte della D. Il Tribunale ha evidenziato che, anche
dall’esame della documentazione fotografica, risultava ben visibile la limitazione alla stessa veduta
causata dalla tettoia installata dal convenuto. Dunque, nessuna pronunzia ultrapetita ha adottato il
Tribunale.
Con il terzo motivo, l’appellante censura l’affermazione del Tribunale secondo il quale il diritto di
veduta, della quale la D. era titolare, era stato costituito per destinazione del padre di famiglia;
contesta, dunque, questo specifico profilo, osservando che negli atti del giudizio di primo grado non
vi erano elementi a supporto di questa affermazione e che l’attrice non aveva provveduto ad
assolvere il proprio onere probatorio, dimostrando sia la titolarità che l’esistenza del diritto di
veduta, del quale invocava la tutela. Ma l’appellante contesta anche nel merito l’esistenza di una
servitù, poiché, come emergeva dalle risultanze della C.T.U., il terrazzo di pertinenza
dell’appartamento del G. (facente parte dello stesso Condominio dell’unità immobiliare della D. ),
faceva parte del condominio limitrofo. Secondo l’appellante, questa circostanza escluderebbe in
radice la costituzione della servitù di veduta in favore dell’attrice per destinazione del padre di
famiglia, mancando il presupposto di questa, consistente nel fatto che gli immobili delle parti in
causa, attualmente divisi, siano stati posseduti da un unico originario proprietario (nella fattispecie,
dal medesimo costruttore ). Ne conseguirebbe l’assoluta mancanza di prova del diritto di veduta
vantato dall’attrice.
Anche questo motivo non ha fondamento. Alla luce della previsione dell’art. 907 c.c., il diritto alla
veduta sul fondo vicino nasce dallo stato dei luoghi e dalla posizione degli immobili delle parti.
Come peraltro ha notato lo stesso Tribunale, ciò vale anche nel caso in esame, posto che le
risultanze della C.T.U. evidenziano in modo inequivoco l’esistenza della veduta dalla proprietà D.
sul sottostante appartamento. Peraltro, il convenuto ha contestato il diritto di veduta in maniera
generica, poiché non ha allegato modifiche dello stato dei luoghi da parte della D. refluenti in
qualche modo sulla veduta in oggetto e non ha escluso che effettivamente ci fosse già questa veduta
prima che egli provvedesse a installare la tettoia, nè che la tettoia costituisse un intralcio alla
veduta.
Con il quarto motivo, l’appellante si duole del rigetto delle proprie domande riconvenzionali.
A) Quanto alla prima domanda, riguardante l’installazione da parte della D., nel tetto di copertura
dell’intero edificio condominiale, di una finestra al servizio esclusivo del proprio appartamento
(sottostante il tetto ), il G. si duole che il primo Giudice non abbia tenuto conto dell’articolo 1117
c.c., secondo il quale i tetti costituiscono, nell’ambito del condominio, “oggetto di proprietà
comune”, e che l’attrice, per poter aprire nel tetto la finestra, avrebbe dovuto ottenere
l’autorizzazione del Condominio, che non era mai stata né richiesta né concessa; richiama, inoltre, la
consolidata giurisprudenza della Cassazione, secondo la quale l’uso della cosa comune da parte di
ciascun partecipante, ai sensi del 1102 c.c., è sottoposto ai due limiti fondamentali consistenti nel
divieto di alterare la destinazione della cosa comune e nel divieto di impedire agli altri partecipanti
di farne parimenti uso secondo il loro diritto, rimettendo al Giudice di merito la valutazione della
legittimità di un uso particolare, in riferimento ai parametri suindicati, in base al confronto tra uso e
diversa destinazione possibile della cosa, quale stabilita anche, per implicito, dai condomini.
Sostiene, quindi, che l’opera realizzata dalla D. non soddisferebbe questi requisiti, perché quando la
finestra viene mantenuta aperta non assolve la sua funzione “naturale”, cioè di copertura
condominiale.
La doglianza non ha pregio. La D. non ha violato i limiti dell’art. 1102 c.c., perché non ha
modificato la destinazione del tetto, sul quale insiste la finestra in oggetto, né può certo dirsi che in
tal modo impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso, per la condizione obiettiva dei luoghi, giacché questa porzione di tetto ricopre uno spazio di proprietà della attrice.
B) Quanto alla domanda riconvenzionale relativa alla collocazione, nel terrazzo di proprietà D. (che
funge anche da copertura dell’unità immobiliare del G.), di un gazebo ancorato al pavimento
mediante perni, l’appellante si duole del rigetto della domanda,
poiché, come risulta dalla C.T.U., per impiantare tale struttura sul terrazzo, è stato necessario
praticare dei fori, che hanno raggiunto il sottostante strato di guaina impermeabilizzante.
Anche a tal riguardo, trova applicazione il già richiamato principio dell’articolo 1102 c.c., che
consente l’uso della cosa comune da parte del singolo comunista, purché non se ne alterino la
destinazione e non si impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso. Peraltro, la C.T.U. non
ha riscontrato una particolare situazione di pericolo, alla cosa comune o alla proprietà
dell’appellante, proveniente dalla installazione in oggetto, e ha, anzi, escluso profili di pericolo,
ribadendo che non è stata alterata la funzionalità del terrazzo o della guaina impermeabilizzante.
L’appello va, pertanto, interamente rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come
in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte d’Appello, definitivamente pronunziando, sentiti i Procuratori delle parti:
1) rigetta l’appello proposto da G.F. nei confronti di D.F. avverso la sentenza n. 3438/07,
pronunziata dal Tribunale di Palermo in data 19.9.2007;
2) condanna l’appellante al pagamento, in favore dell’appellata, delle spese del presente grado del
giudizio, che liquida in complessivi Euro 1.650,00, di cui Euro 1.500,00 per compensi ed 6 150,00
per spese, oltre oneri forfetari, CPA e IVA.
Così deciso in Palermo il 9 gennaio 2015.
Depositata in Cancelleria il 25 maggio 2015.

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