L’utilizzo frazionato diretto è una modalità di godimento della cosa comune che, nel disaccordo tra i comunisti, il tribunale adìto ex art. 1105, comma 4, c.c. può disporre, se del caso nominando un amministratore giudiziario per l’adozione dei necessari provvedimenti attuativi, trattandosi di attività rientrante nel novero degli atti di ordinaria amministrazione anche quando comporti o richieda qualche suddivisione degli spazi.

 

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Decreto Tribunale Lecce 25.7.16 n. 1864 del 2013
OSSERVA
L’istanza con cui CD ha richiesto la revoca dei decreti depositati in data 18.3.14, 29.9.14, 18.3.15,
15.5.15, 17.2.16 e 17.6.16 merita accoglimento nei limiti appresso illustrati.
Preliminarmente va rilevata l’infondatezza delle eccezioni sulla scorta delle quali CE ha dedotto che
i suddetti provvedimenti non sarebbero revocabili.
Privo di pregio è, infatti, il rilievo secondo cui i predetti provvedimenti sarebbero coperti da
giudicato, per essere il primo stato confermato dalla Corte d’Appello e gli altri non impugnati nel
prescritto termine di legge. Come più volte affermato dalla giurisprudenza, “/ decreti emessi dal
giudice ordinario, anche in sede di reclamo, in ordine ai provvedimenti necessari per
l’amministrazione della cosa comune a norma dell’art. 1105, ultimo comma, c.c. sono soltanto
suscettibili di revoca o di modificazione e non impugnabili con il ricorso per cassazione ex art. Ili
cosi., in quanto aventi natura di provvedimenti di volontaria giurisdizione, privi, pertanto, del
carattere della definitività e della decisorietà, non idonei a incidere in via definitiva su posizioni di
diritto soggettivo in conflitto e quindi a costituire giudicato ” (Cass. n. 8481/12).
D’altro canto la Corte d’Appello ha rigettato il reclamo proposto avverso il primo dei predetti decreti
ritenendo anch’essa che tale provvedimento fosse pienamente riconducibile all’alveo dell’art. 1105
c.c. ed escludendo che il decreto sottoposto al suo vaglio avesse travalicato i limiti applicativi della
suddetta disposizione andando ad incidere definitivamente su posizioni di diritto soggettivo. Né
rileva, in senso contrario, la circostanza che nel decidere in ordine alle spese di lite essa abbia
ascritto il procedimento dinanzi ad essa incardinato nell’ambito di quelli di volontaria giurisdizione
di natura contenziosa. Come noto, infatti, rientrano nell’ambito della volontaria giurisdizione tanto
procedimenti di natura lato sensu amministrativa, quanto procedimenti nei quali è ravvisabile un
conflitto tra la posizione del ricorrente e quella del soggetto controinteressato, sicché raccoglimento
della pretesa di una delle parti comporta la condanna dell’altra alle spese di lite. Ciò non determina,
tuttavia, la loro sussumibilità nell’ambito della giurisdizione contenziosa vera e propria, giacché la
posizione di contrasto tra gli opposti interessi delle parti non muta la natura di tali procedimenti, che
sono e restano di giurisdizione volontaria, seguendo le regole proprie di quest’ultima. Essi, infatti,
sono introdotti con ricorso, sono disciplinati dalle norme del rito camerale e sono decisi con decreto
suscettibile di essere revocato in ogni tempo.
Parimenti privo di pregio è l’assunto secondo cui i provvedimenti dei quali trattasi potrebbero essere
revocati solo dalla Corte d’Appello, posto che i provvedimenti emessi nell’ambito della volontaria
giurisdizione sono revocabili unicamente dal giudice che li ha pronunciati. Nel caso di specie, il
decreto depositato il 18.3.14 è stato emesso da questa autorità giudiziaria ed in alcun modo
modificato dalla Corte d’Appello, sicché esso è revocabile e modificabile ad opera del Tribunale, al
pari dei decreti successivamente emessi nell’ambito del presente procedimento, non impugnati
dinanzi alla Corte.
Come chiarito dal Giudice di legittimità, infatti, la competenza a disporre la revoca di un
provvedimento di volontaria giurisdizione per un preesistente vizio di legittimità o per un
ripensamento sulle ragioni che indussero ad adottarlo spetta allo stesso giudice che lo ha emesso e,
quindi, al giudice superiore solo se il provvedimento revocando sia stato adottato a seguito di
reclamo (v. Cass. n. 1540/1983).
Tanto premesso, il Collegio conferma il proprio orientamento, avallato dalla prevalente dottrina e
dalla giurisprudenza maggioritaria, secondo cui quella del godimento frazionato è una modalità di
godimento della cosa comune che, nel disaccordo tra i condomini, il Tribunale adito ex art. 1105
c.c. può disporre, se del caso nominando un amministratore per l’adozione dei necessari
provvedimenti attuativi, trattandosi di attività rientrante nel novero degli atti di ordinaria
amministrazione, anche quando ciò comporti o richieda una qualche suddivisione degli spazi, che è
concetto diverso dalla divisione intesa come scioglimento della comunione. Come correttamente
osservato da un autore in dottrina, infatti, la divisione attiene al piano del diritto mentre il
frazionamento a quello dell’esercizio della facoltà di godimento, che connota il diritto.
D’altro canto non ogni modifica della cosa comune trascende i limiti dell’uso frazionato per
trasmodare nell’appropriazione di parte della cosa comune, atteso che quest’ultima ricorre, secondo
quanto chiarito dalla giurisprudenza, solo allorquando la cosa comune sia alterata, nella sostanza o
nella forma, o addirittura sottratta alla possibilità di godimento collettivo nei termini, si badi bene,
funzionali, e non già quantitativi, originariamente praticati. È evidente, infatti, che la possibilità di
godimento collettivo che l’uso frazionato non deve precludere non ha ad oggetto ogni singola
porzione di immobile, atteso che altrimenti esso non sarebbe mai praticabile, bensì la possibilità di
usare la cosa in conformità all’uso a cui è destinata.
Deve, quindi, reputarsi legittimo il godimento frazionato di una porzione di immobile quale
abitazione, a condizione che gli altri partecipanti possano anch’essi fare analogo uso di altra
porzione dell’immobile che a ciò fosse originariamente destinato, allo stesso modo in cui è legittima
l’assegnazione a ciascun condomino, in godimento esclusivo, di una determinata porzione del
cortile comune quale posto auto (nel caso scrutinato da Cass. n. 11034/2016, citata dal resistente,
l’assegnazione riguardava soltanto alcuni dei condomini).
Ciò premesso, va tuttavia rilevato che alla scorsa udienza è emerso che il godimento frazionato
disposto da questo Tribunale con il citato decreto depositato il 18.3.14, che prevedeva l’utilizzo da
parte di uno dei comunisti della porzione di immobile sita al piano terra ed all’altro di quella ubicata
al primo piano, non è praticabile, posto che, secondo quanto riferito dall’amministratore, nessuno
dei vani posti al primo piano può essere, allo stato, adibito a cucina.
A tal fine occorrerebbe procedere ad un cambio di destinazione d’uso di uno dei suddetti vani,
variazione che, comportando una modifica non meramente provvisoria dell’uso che dello stesso può
farsi, configura una innovazione o, comunque, un atto di straordinaria amministrazione che, per
granitico orientamento della giurisprudenza ed altrettanta pacifica dottrina, esula non solo dalle
attività che l’amministratore può compiere, ma anche dal novero dei provvedimenti che il Tribunale
può adottare in questa sede.
L’impossibilità, per le predette ragioni, di adibire a cucina uno dei vani del primo piano e, dunque,
l’inagibilità quale abitazione della suddetta porzione di immobile impedisce di accogliere la
domanda con cui CE ha richiesto, alla scorsa udienza, di essere autorizzato ad utilizzare in via esclusiva tale porzione dell’immobile in luogo del resistente.
I decreti innanzi menzionati vanno dunque revocati nella parti in cui hanno disposto il godimento
frazionato dell’Immobile e l’esecuzione delle opere, tra quelle indicate dall’arch. LS nelle relazioni
dalla stessa depositate nel procedimento per accertamento tecnico preventivo iscritto al n.
1960/2011 R.G. di questo Tribunale, indispensabili ed indifferibili per consentire al ricorrente l’uso
esclusivo del piano terra dell’immobile.
I predetti provvedimenti vanno invece confermati per ciò cha attiene ai lavori, tra quelli indicati
nelle suddette relazioni, ritenuti dall’amministratore nominato dal Tribunale – che per tale ragione
ha, da ultimo, conferito tale incarico a professionista in possesso delle necessarie competenze
tecniche – necessari ed urgenti per la manutenzione, anche straordinaria dell’immobile.
E’ infatti pacifico che ricorra, in proposito, come evidenziato anche dalla Corte d’Appello, una
situazione di inerzia nell’amministrazione della cosa comune e/o di impossibilità di formazione
della maggioranza necessaria per l’adozione della relativa delibera, atteso che le parti non
concordano in ordine ai lavori da compiere e, malgrado il procedimento di accertamento tecnico
preventivo esperito innanzi a questo Tribunale, il ricorrente per un verso dissente dai lavori
intrapresi dal resistente senza il suo coinvolgimento e vuole ottenerne l’inibizione, per altro verso
vorrebbe si procedesse all’esecuzione dì differenti opere alla cui realizzazione CD si oppone.
Alla luce delle precedenti considerazioni vanno dunque esclusi, dal novero dei lavori che, sulla
scorta delle indicazioni fornite all’udienza del 10.6.16 dall’amministratore, il Tribunale ha disposto
che debbano essere eseguiti nell’immobile di proprietà delle parti, quelli che non appaiono necessari
ed urgenti per la manutenzione, anche straordinaria dell’ edificio, ma che erano stati disposti solo in
quanto necessari al godimento frazionato dell’immobile, quali la riparazione del cancello pedonale,
la riattivazione dell’impianto idrico-fognante dell’appartamento al piano terra e l’attestazione dei
sanitari terminali per l’uso della cucina e del bagno in detto appartamento, l’apposizione di una porta
in metallo che inibisca il passaggio dal seminterrato al piano terra, lo sgombero dei vani al piano
terra occupati da masserizie di vario genere di proprietà del resistente, la chiusura mediante
erezione di apposito muro del vano abusivo presente al piano terra, previo sgombero del medesimo.
Conseguentemente, i lavori che l’amministratore dovrà eseguire nell’immobile in questione sono
solo i seguenti: consolidamento e recupero degli elementi strutturali in cemento armato posti sul
lato sud-est dell’edificio; rifacimento pavimentazione delle terrazze a livello di pertinenza del piano
terra poste sul lato sud-est dell’edificio; consolidamento del parapetto scala; ancoraggio balconi;
riparazione degli infissi del l’appartamento al piano terra.
Il Tribunale reputa, infatti, infondata la doglianza di CD secondo cui il ricorso proposto da CE
sarebbe in parte qua inammissibile per non avere egli previamente convocato l’assemblea per
verificare l’impossibilità che formasse una maggioranza, in quanto fondata su un’esegesi della
norma di cui all’art. 1105 c.c. che appare formalistica. Ritiene, invero, il Collegio, che l’estrema
conflittualità esistente tra i condomini ed il loro palese dissenso in ordine ai lavori da eseguire
presso l’immobile, emergenti per tabulas , rendessero inutile ed ultronea rispetto alle finalità che la
suddetta norma persegue la convocazione di un’assemblea.
Parimenti privo di fondamento è l’assunto secondo cui la nomina dell’arch. C. Elia ad amministratore della comunione sarebbe affetta da nullità poiché questi non avrebbe frequentato il
corso di formazione previsto dall’art. 71 bis disp. att. c.p.c. e dal D.M. n. 140/2014, atteso, per un
verso, che si versa in ipotesi di comunione pro indiviso di un immobile, e non già di condominio
minimo e posto, in ogni caso, che le suddette norme non trovano applicazione nell’ipotesi di nomina
dell’amministratore da parte dell’autorità giudiziaria.
Va, dunque, confermato il decreto depositato in data 17.6.16 nella parte in cui il Tribunale ha
disposto che l’amministratore provveda all’esecuzione dei lavori testé indicati tramite maestranze
dallo stesso scelte, ai prezzi indicati nel prezzario regionale per le opere edili ed a spese del
ricorrente in via d’anticipo, previo versamento da parte di quest’ultimo delle somme dalle stesse di
volta in volta in volta richieste a titolo di acconti, avendo CE manifestato la propria disponibilità in
tal senso. Il predetto provvedimento va, invece, revocato nella parte in cui ha autorizzato
l’amministratore, per l’ipotesi in cui CD non provveda a sgomberare tutti i vani dell’appartamento al
piano terra dalle masserizie di sua proprietà, a consegnare al l’amministratore copia delle chiavi che
consentano al medesimo l’accesso al predetto appartamento ed alla custodia dei cani di modo che
non costituiscano fonte di pericolo per l’amministratore stesso o per le maestranze, a provvedervi
egli stesso, anche con l’ausilio dell’ufficiale giudiziario e della forza pubblica.
Appare, infatti, condivisibile il rilievo con cui, nel chiedere la revoca di detto decreto, CD ha
osservato che nel concedere all’amministratore il potere di attuare quanto disposto con il decreto
depositato il 18.3.14 rimuovendo gli ostacoli con cui il resistente da oltre tre anni impedisce che
esso possa trovare esecuzione il predetto provvedimento – al pari di quelli depositati in data 29.9.14,
18.3.15, 15.5.15 e 17.7.15, che vanno, parimenti, revocati – finisce col risolvere un conflitto tra i
diritti soggettivi dei due comunisti, conflitto la cui soluzione va invece trovata in sede di
giurisdizione contenziosa.
Ed infatti l’amministratore della cosa comune nominato dall’autorità giudiziaria a norma dell’alt
1105 quarto comma c.c., al pari dell’amministratore nominato dall’assemblea dei comproprietari, ha
il mero compito di amministrare, non già quello di deliberare o di risolvere conflitti di diritti
soggettivi tra i vari cointeressati: la risoluzione dei conflitti di diritti soggettivi tra i comproprietari
costituisce, infatti, compito esclusivo dell’autorità giudiziaria in sede contenziosa (Cass. n. 1765/74;
Cass. n. 571/77).
Come evidenziato dalla dottrina, l’art. 1105, comma 4 c.c. dispone che, se non si prendono i
provvedimenti necessari per l’amministrazione della cosa comune o non si forma una maggioranza,
o se la deliberazione adottata non viene eseguita, ciascun partecipante può ricorrere all’autorità
giudiziaria, che provvede in camera di consiglio e può anche nominare un amministratore.
La norma postula quindi l’ammissibilità di altri provvedimenti, diversi dalla nomina di un
amministratore, che il giudice può adottare, su richiesta di singoli partecipanti: il giudice può, come
in dottrina si ammette, decidere egli stesso quegli atti di amministrazione della cosa comune che,
per inerzia o per i contrasti fra loro insorti, i partecipanti non hanno deliberato, sicché lo specifico
potere di nominare un amministratore si rivela, a questo modo, quale manifestazione di un più
ampio potere che al giudice è dato di esercitare sull’amministrazione della comunione, ampio al
punto da consentirgli di sostituirsi ai partecipanti nella stessa gestione della cosa comune.
A norma dell’alt. 1105, comma 4 c.c., il giudice può, dunque, anzitutto prendere egli stesso, in sostituzione dei partecipanti inerti, i provvedimenti necessari per l’amministrazione della cosa
comune: egli può, cioè, positivamente realizzare, nell’ipotesi di inerzia dei partecipanti,
quell’esigenza di evitare il grave pregiudizio della cosa comune che, annullando le deliberazioni
pregiudizievoli, realizza negativamente. Il giudice può, inoltre, nominare un amministratore, ciò che
egli farà, si precisa in dottrina, nei casi più gravi, cioè quando proprio non se ne potrebbe fare a
meno, ovvero quando l’inerzia o la discordia dei partecipanti, anziché limitarsi a specifici atti di
amministrazione (ai quali il giudice possa provvedere in loro vece), si sia rivelata tale da impedire
loro il compimento di qualsiasi atto di amministrazione.
In siffatte ipotesi, tuttavia, il provvedimento del giudice non dà vita ad una forma di
amministrazione della cosa comune diversa da quella, prevista dall’art. 1106 comma 2 c.c., alla
quale gli stessi partecipanti potrebbero dare vita. Non si è, dunque, in presenza di una
amministrazione giudiziaria del genere di quella regolata, per le società di capitali, dall’art. 2409
c.c., nell’ambito della quale l’amministratore nominato dal tribunale è pubblico ufficiale, deve
rendere al tribunale, e non ai soci, il conto della sua gestione ed al tribunale deve chiedere
l’autorizzazione per il compimento degli atti di straordinaria amministrazione (artt. 92 – 94 disp. att.,
richiamati dall’art. 103 disp. att.). Qui, invece, l’intervento del giudice si esaurisce nell’atto di
nomina: l’amministratore nominato dal giudice è, non diversamente da quello nominato dalle parti,
mandatario dei partecipanti, a costoro dovrà rendere conto della sua amministrazione, costoro
potranno, una volta superata l’inerzia o ritrovato l’accordo, impartirgli direttive o sostituirsi a lui nel
deliberare atti di amministrazione o, infine, revocarlo.
Il provvedimento giudiziario di nomina di un amministratore si rivela, in tal modo, come
qualitativamente non diverso da quegli altri provvedimenti necessari per l’ amministrazione della
cosa comune che, nell’inerzia dei partecipanti, il tribunale può adottare: come il giudice può,
sostituendosi alle parti inerti o discordi, prendere ogni provvedimento necessario per
l’amministrazione della cosa comune, così egli può prendere quello, fra i provvedimenti necessari
per l’amministrazione della cosa comune, il quale consista nella nomina di un amministratore. In
particolare il giudice si limiterà a designare la persona dell’amministratore quando le parti, concordi
sulla necessità di un comunione, siano discordi sulla designazione della persona; egli valuterà,
invece, la stessa opportunità della nomina di un amministratore quando le parti, per la loro inerzia o
per i contrasti fra essi insorti, si siano rivelate incapaci di provvedere direttamente
all’amministrazione.
In entrambi i casi, tuttavia, si reputa che il giudice, intervenendo nell’esercizio di una funzione
sostitutiva od integratrice delle funzioni proprie degli organi condominiali e della maggioranza
assembleare, è tenuto ad esercitare un potere che si esplica sullo stesso piano, nel senso che può fare
solo quello che avrebbe potuto fare il soggetto sostituito, se regolarmente funzionante, mentre, in
sede contenziosa, lo stesso giudice può esercitare la iuris dictio sui diritti controversi, pronunciare
provvedimenti suscettibili di esecuzione forzata e valutare il comportamento dei singoli partecipanti
anche circa le relative conseguenze patrimoniali, come il risarcimento danni.
Da ciò discende che poiché con il provvedimento di nomina il Tribunale si limita a supplire alla
volontà dell’assemblea condominiale, il rapporto tra amministratore e condominio si svolge in
assoluta autonomia, senza possibilità di interferenza da parte del Tribunale (App. Lecce 3.5.1995).
Dalle considerazioni che precedono deriva che con l’indicazione dei lavori indifferibili da eseguire
per la conservazione della cosa comune e con la nomina di un amministratore che, nell’inerzia o nel
disaccordo tra i comunisti a ciò provveda, il Tribunale ha esaurito la potestas iudicandi esercitarle in
sede di giurisdizione volontaria, non competendogli, nell’ambito del presente procedimento,
l’emanazione degli ulteriori provvedimenti necessari per dare attuazione coattiva a quanto disposto.
La reciproca soccombenza, il fatto che la revoca del decreto depositato in data 18.3.14 dipenda da
una circostanza in precedenza non allegata da alcuna delle parti e la particolarità e complessità della
vicenda giustificano l’integrale compensazione tra le stesse delle spese dell’intero procedimento.
P.Q.M.
REVOCA parzialmente, per come chiarito in motivazione, i decreti depositati il 18.3.14 e 17.6.16;
REVOCA i decreti depositati il 29.9.14, 18.3.15, 15.5.15 e 17.7.15;
COMPENSA interamente tra le parti le spese del procedimento.
Così deciso, in Lecce, nella Camera di Consiglio del 22 luglio 2016.
Il Giudice ref.
Dott. M.R.
Il Presidente
Dott.ssa P.P.

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