La Corte di Cassazione si pronuncia sull’entità e la natura del danno risarcibile.
La risoluzione anticipata del contratto di locazione per inadempimento della controparte genera un danno risarcibile sulla cui natura ed entità si è definitivamente pronunciata la Corte di Cassazione.
E’ infatti risarcibile l’interesse contrattuale positivo, pari all’incremento patrimoniale netto che la parte non inadempiente avrebbe conseguito dall’esecuzione del contratto
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. GRAZIOSI Chiara – Presidente – Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere – Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere – Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere – Dott. D’ARRIGO Cosimo – Consigliere – ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 32821/2018 R.G. proposto da:
Innova S.p.A., rappresentata e difesa dal Prof. Avv. Andrea Zoppini, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, Piazza di Spagna, n. 15;
– ricorrente – contro
ITF FIN S.r.l., rappresentata e difesa dall’Avv. Mauro Longo, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Pompeo Magno, n. 94;
– controricorrente –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma, n. 7014/2018, pubblicata il 6 novembre 2018;
Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 7 febbraio 2020 dal Consigliere Dott. Emilio Iannello;
udito l’Avvocato Andrea Zoppini; udito l’Avvocato Mauro Longo;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. Patrone Ignazio, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
1. Con ricorso ex art. 447-bis c.p.c. la Innova S.p.A. adì il Tribunale di Roma chiedendo dichiararsi la risoluzione del contratto di locazione di immobile ad uso commerciale, stipulato il 23/9/2010 con la ITF FIN S.r.l., per inadempimento della locatrice (determinatosi, a suo dire, nel settembre del 2012, per la mancata fornitura della documentazione tecnica necessaria per l’adeguamento del certificato di prevenzione incendi), con la condanna della stessa al risarcimento del danno.
La locatrice resistette alla domanda, deducendo che era piuttosto la conduttrice ad essersi resa inadempiente al pagamento dei canoni pattuiti a cominciare da quello di ottobre 2012: canoni per i quali aveva chiesto ed ottenuto decreto ingiuntivo, opposto dalla Innova S.p.A. in separato giudizio.
2. Riuniti i procedimenti, il Tribunale, con sentenza del 26/6/2014, rigettò le domande della conduttrice e, dato atto dell’intervenuto pagamento dei canoni di ottobre e novembre 2012, revocò il decreto ingiuntivo, condannando Innova S.p.A. al pagamento della residua somma dovuta per canoni maturati da dicembre 2012 ad aprile 2013, data della riconsegna formale dell’immobile (al netto dell’importo riscosso dalla locatrice mediante l’escussione di una polizza fideiussoria).
Rigettò, invece, l’ulteriore domanda della locatrice volta ad ottenere, a titolo di risarcimento del danno, il pagamento anche degli ulteriori canoni maturati successivamente al rilascio e maturandi fino alla scadenza naturale del contratto (21/9/2016).
3. La Corte d’appello di Roma – parzialmente accogliendo l’appello proposto dalla locatrice e rigettando, invece, quello incidentale della conduttrice (che, oltre a reiterare le domande proposte in primo grado, aveva anche chiesto dichiararsi la nullità del contratto per asserita impossibilità assoluta dell’oggetto: domanda, questa, ritenuta inammissibile dalla Corte d’appello, in quanto nuova) – ha condannato (per quanto in questa sede interessa) Innova S.p.A. al pagamento, in favore della ITF FIN S.r.l, della ulteriore somma di Euro 886.547,13, oltre Iva ed interessi legali dalle singole scadenze, quali canoni dovuti dalla data del rilascio fino a quella di naturale scadenza del contratto, a tal fine però computando, per il segmento temporale successivo al 28/1/2014, solo la differenza tra il canone che era stato pattuito tra le parti e quello minore ottenuto dalla locazione dell’immobile ad altra società.
Ha infatti rilevato, evocando a sostegno i precedenti di questa Corte n. 2865 del 2015 e n. 10677 del 2008, che, in conseguenza dell’anticipata cessazione del rapporto, non giustificata da legittimi motivi di risoluzione per inadempimento del locatore, e considerato anche che, nella specie, il contratto di locazione prevedeva che esso non fosse rescindibile per sei anni a partire dal 20/9/2010, il conduttore era tenuto a pagare il canone fino alla naturale scadenza del contratto.
Secondo i giudici d’appello doveva pertanto ritenersi fondata la domanda, avanzata dalla locatrice, di risarcimento del danno da lucro cessante, rappresentato dai proventi che sarebbero derivati dalla locazione dal maggio 2013 al gennaio 2014 e poi, da quella data e fino alla scadenza, dalla differenza tra detti canoni e quelli percepiti dalla nuova locataria.
4. Avverso tale decisione Innova S.p.A. propone ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi, cui resiste ITF FIN S.r.l., depositando controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c.. Motivi della decisione
1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nullità della sentenza per violazione degli artt. 345 e 437 c.p.c. per avere la Corte d’appello ritenuto inammissibile, in quanto nuova, la domanda volta a ottenere la dichiarazione della nullità del contratto di locazione per impossibilità assoluta dell’oggetto.
Deduce che tale affermazione sarebbe doppiamente erronea dal momento che:
a) la domanda in realtà formava già oggetto del thema decidendum del giudizio di primo grado, poichè dedotta negli scritti difensivi (in particolare a pag. 7 della memoria difensiva del 19/9/2013, nella quale si menzionava la clausola contrattuale nella quale era previsto testualmente che “qualora l’immobile non avesse i requisiti tali da permettere lo svolgimento dell’attività della conduttrice, il presente contratto risulterà nullo”);
b) trattavasi, comunque, di questione rilevabile d’ufficio anche in appello e, come tale, sottratta al divieto di ius novorum dettato dalle citate norme.
2. Con il secondo motivo la ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, nullità della sentenza per ulteriore violazione degli artt. 345 e 437 c.p.c., per avere la Corte di merito ritenuto ammissibile l’allegazione da parte della locatrice, in appello, di un fatto nuovo (consistente nell’avvenuta ricollocazione sul mercato dell’immobile nel mese di gennaio 2014) e della prova documentale a tal fine prodotta (rappresentata dal contratto di locazione stipulato a quella data con altra società).
Sostiene che, diversamente da quanto affermato in sentenza, la nuova allegazione e la relativa produzione documentale non hanno portato alcun vantaggio ad essa odierna ricorrente, essendosi, al contrario, consentito in tal modo alla ITF FIN di sanare il deficit probatorio che, come rilevato dal Tribunale, inficiava la propria domanda risarcitoria.
3. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1591 c.c. e art. 1223 c.c. e ss., per avere la Corte d’appello riconosciuto alla ITF FIN S.r.l. il diritto a ricevere il canone pattuito anche per il periodo successivo alla riconsegna dell’immobile, avvenuta nel mese di aprile 2013.
Sostiene che tale affermazione si pone in frontale contrasto, tanto con la disposizione di cui all’art. 1591 c.c., quanto con il principio generale che informa la disciplina della liquidazione del danno in base al quale il risarcimento deve essere limitato a quanto è “conseguenza immediata e diretta” dell’inadempimento, non potendo ricomprendersi i danni che il locatore avrebbe potuto evitare usando
l’ordinaria diligenza (art. 1223 c.c. e art. 1227 c.c., comma 2).
Osserva che non si può imporre al conduttore il versamento di un canone a fronte del mancato godimento del bene e che, ove ciò fosse consentito, il locatore non avrebbe alcun incentivo a ricollocarlo sul mercato, potendo fare affidamento su un’entrata sicura da parte di un soggetto che peraltro non usufruisce nemmeno più della res.
Richiama a supporto alcuni precedenti di questa Corte e, segnatamente, quello di Cass. n. 27614 del 2013, espressione, secondo la ricorrente (che sollecita in subordine eventuale rimessione della questione alle Sezioni Unite), di un orientamento prevalente e preferibile rispetto a quello minoritario richiamato in sentenza.
4. Con il quarto motivo la ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1453, 1460, 1575 e 1578 c.c. e/o nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c..
4.1. La censura di error iuris si sostanzia nel rilievo che la Corte d’appello, “pur avendo accertato sulla base delle risultanze istruttorie che l’immobile oggetto del contratto di locazione tra la ITF FIN S.r.l. e la Innova era privo di un adeguato e, dunque, valido certificato di prevenzione incendi, non ha sussunto la fattispecie concreta in quella astratta delineata nelle norme sopra richiamate, ritenendo che la locatrice non fosse inadempiente rispetto alle obbligazioni poste in capo alla stessa dalla legge e dal contratto”.
Rilevato che, come evidenziato nella motivazione della sentenza impugnata, il Comando Provinciale dei VV.FF. aveva espressamente richiesto l’adeguamento del certificato di prevenzione incendi (CPI), lamenta la ricorrente che la Corte d’appello non ha poi tratto da tale premessa le dovute conseguenze in punto di inadempimento del locatore agli obblighi previsti dalla legge e dal contratto.
4.2. La stessa doglianza viene poi posta a fondamento del dedotto vizio di insanabile contraddittorietà della motivazione, avendo la Corte d’appello, da un lato, affermato non esservi prova che l’impianto fotovoltaico non fosse a norma e che avesse compromesso l’idoneità del capannone all’uso a cui era destinato, dall’altro, riconosciuto che il Comando Provinciale dei VV.FF. aveva richiesto l’adeguamento del CPI. 5. Con il quinto motivo infine la ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1209, 1216 e 1220 c.c. per avere la Corte d’appello individuato, quale data di cessazione del rapporto, quella della formale riconsegna dell’immobile, nonostante Innova S.p.A. avesse già in precedenza intimato alla ITF di riprendere il possesso dell’immobile.
Sostiene pertanto che, conformemente all’orientamento di legittimità, la Corte d’appello avrebbe dovuto limitare la condanna al versamento dei canoni pattuiti fino all’invio, in data 5/2/2013, della diffida rivolta al locatore a riprendersi in consegna l’immobile libero da cose e persone o, in subordine, fino alla notificazione dell’offerta formale per intimazione, effettuata in data 4/4/2013.
6. E’ infondato il primo motivo di ricorso, occorrendo sul punto solo correggere la
motivazione, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 4.
Deve invero rilevarsi che, se è vero che la domanda volta all’accertamento della nullità del contratto costituiva inammissibile domanda nuova, ciò tuttavia non esimeva il giudice d’appello dal potere/dovere di esaminare la questione posta e motivare nel merito della sua fondatezza, trattandosi di questione rilevabile d’ufficio.
E’ però agevole rilevare che, nella specie, alla stregua della stessa prospettazione fattane in ricorso, si trattava di questione manifestamente infondata, sicchè conforme a diritto risulta comunque la decisione impugnata nella parte in cui tale nullità ha omesso di dichiarare (previa la necessaria avvertenza che, sebbene per quanto detto, la questione di nullità non sia stata esaminata dalla Corte di merito, sulla stessa può pronunciarsi questa Corte, ex art. 384 c.p.c., comma 2, non richiedendosi al riguardo ulteriori accertamenti di fatto).
6.1. Sotto il primo profilo occorre rammentare che, ai sensi dell’art. 1421 c.c. la nullità del contratto “può essere rilevata d’ufficio dal giudice” e che tale norma va coordinata con la disciplina delle impugnazioni, tenendo conto del principio affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte, con le sentenze nn. 26242 e 26243 del 12/12/2014, secondo cui, “in appello e in Cassazione, in caso di mancata rilevazione officiosa della nullità in primo grado, il giudice ha sempre facoltà di rilevare d’ufficio la nullità”.
Mette conto al riguardo testualmente richiamare quanto in proposito osservato, in motivazione, da Cass. Sez. U. n. 26243 del 2014 (pagg. 85 – 87; p.p. da 8.3.1 a 8.6.2):
“8.3.1…. E’ pressochè superfluo rammentare che, in sede di gravame, il thema decidendum resta definitivamente cristallizzato dal contenuto della decisione impugnata.
“E’ altrettanto noto che l’art. 345 c.p.c. detta il principio della inammissibilità, da dichiararsi d’ufficio, delle domande nuove proposte dinanzi al giudice dell’impugnazione.
“La norma va tuttavia coordinata, nella sua portata precettiva, con il perdurante obbligo di rilevare di ufficio una causa di nullità negoziale imposto al giudice di appello (al pari di quello di legittimità) dall’art. 1421 c.c.., che non conosce nè consente limitazioni di grado.
“8.4. Ne consegue:
– Da un canto, che al giudice di appello investito di una domanda nuova volta alla declaratoria di nullità di un negozio del quale in primo grado si era chiesta l’esecuzione, la risoluzione, la rescissione, l’annullamento (senza che il giudice di prime cure abbia rilevato nè indicato alle parti cause di nullità negoziale), è preclusa la facoltà di esaminarla perchè inammissibile.
– Dall’altro, che a quello stesso giudice è fatto obbligo di rilevare d’ufficio una causa di nullità non dedotta nè rilevata in primo grado, indicandola alle parti ai sensi
dell’art. 101, comma 2 (norma di portata generale e dunque applicabile anche in sede di appello);
– Dall’altro ancora, che tale obbligo deve ritenersi altresì attivabile da ciascuna delle parti ai sensi dell’art. 345 c.p.c., comma 2, che consente la proposizione di eccezioni rilevabili di ufficio.
“8.5. La corretta coniugazione di tali, distinti aspetti processuali conduce:
1) Alla declaratoria di inammissibilità della domanda di nullità per novità della questione, che peraltro non ne impedisce (secondo consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Corte) la conversione e l’esame sub specie di eccezione di nullità, legittimamente proposta dall’appellante in quanto rilevabile di ufficio.
2) Alla (eventuale) rilevazione della nullità, nell’esercizio di un potere-dovere officioso, e alla indicazione del nuovo tema da esplorare in questa nuova fase del giudizio, se nessuna delle parti abbia sollevato la relativa eccezione.
“8.6. Non può pertanto ritenersi preclusa al giudice, rilevata in limine la inammissibilità della domanda nuova, la facoltà di motivare in ordine alla ritenuta validità del contratto (…), con argomentazioni perfettamente speculari rispetto a quelle che avrebbe svolto se quella nullità egli stesso avesse autonomamente rilevato.
“8.6.1. Lungi da risultare “sovrabbondante o illegittima”, una tale motivazione si configura come doverosa disamina della (domanda inammissibile convertita in) eccezione di nullità negoziale formulata dalla parte appellante.
“8.6.2. Egli non potrà, pertanto, limitarsi ad una declaratoria di inammissibilità in ragione della novità della domanda di nullità emanando una pronuncia che racchiuderebbe, in tal caso, un significante esplicito (l’inammissibilità della domanda) ed un implicito significato (la validità negoziale) -, ma deve, in conseguenza della conversione della domanda (inammissibile) in eccezione (ammissibile) di accertamento della nullità, esaminare il merito della questione”.
Alla luce di tali chiare indicazioni, monca, e pertanto erronea, deve ritenersi la motivazione sul punto adottata dalla Corte di merito poichè esauritasi nel rilievo della inammissibilità della domanda di nullità, in quanto nuova, e mancante di alcuna successiva disamina, comunque dovuta, in ordine alla sussistenza della dedotta nullità.
6.2. Come detto, però, la questione è manifestamente infondata, dal momento che quella dedotta non potrebbe comunque integrare, indipendentemente dalla verifica della sua sussistenza in punto di fatto, causa di nullità del contratto, trattandosi di impossibilità dell’oggetto, in tesi, secondo la stessa prospettazione della parte (che chiaramente la fa derivare dalla installazione, effettuata in corso di rapporto dalla locatrice, di un impianto fotovoltaico sul tetto del capannone e dalla conseguente necessità, manifestatasi anche a seguito dell’incendio verificatosi per cause inerenti a quell’impianto, di un adeguamento del certificato di prevenzione incendi), sopravvenuta nel corso del rapporto, come tale incidente sul piano funzionale del
rapporto e non già in quello genetico del contratto.
Varrà al riguardo rammentare che, secondo pacifico insegnamento, la nullità del contratto o della singola clausola contrattuale per impossibilità della cosa o del comportamento che ne forma oggetto (art. 1346, 1347, 1418 e 1419 c.c.) richiede che tale impossibilità, oltre che oggettiva, sia anche presente fin dal momento della stipulazione e ricorre solo quando la prestazione sia insuscettibile di essere effettuata per la sussistenza di impedimenti originari di carattere materiale o giuridico che ostacolino in modo assoluto il risultato cui essa era diretta (v. e pluribus Cass. 21/05/2001, n. 6927; 20/04/1998, n. 4013; 20/07/1987, n. 6362).
7. Il quarto motivo, al cui esame occorre adesso procedere per evidenti ragioni di priorità logica, è infondato.
7.1. L’illustrazione della censura – lungi dal giustificare la dedotta (in rubrica) erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, delle fattispecie astratte recate dalle norme di legge richiamate – si risolve piuttosto, in realtà, in una critica alla ricognizione, da parte del giudice a quo, della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa: operazione che non attiene all’esatta interpretazione della norma di legge, inerendo bensì alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, unicamente sotto l’aspetto del vizio di motivazione (cfr., ex plurimis, Cass. 26/03/2010, n. 7394; 30/12/2015, n. 26110), neppure coinvolgendo, la prospettazione critica del ricorrente l’eventuale falsa applicazione delle norme richiamate sotto il profilo dell’erronea sussunzione giuridica di un fatto in sè incontroverso, insistendo propriamente la Innova S.p.A. nella prospettazione di una diversa ricostruzione dei fatti di causa, rispetto a quella operata dal giudice a quo.
L’ubi consistam delle censure sollevate dall’odierna ricorrente deve, invero, individuarsi nell’affermazione secondo cui il mancato adeguamento del certificato di prevenzione incendi (CPI) richiesto dal Comando Provinciale dei VV.FF. comportava di per sè inadempimento degli obblighi gravanti sulla locatrice, tale di per sè da giustificare la sospensione del pagamento del canone e poi la risoluzione del contratto ex art. 1453 c.c..
Si tratta, però, evidentemente, di affermazione che non trova riscontro negli accertamenti operati in sentenza, ma anzi si pone in contrasto, alla stregua di mera asserzione oppositiva, con la contraria valutazione ivi espressa secondo cui, oltre a detto adempimento formale, non risultava necessario un adeguamento dell’impianto, nè emergeva un aggravamento del rischio incendi, avendosi piuttosto contezza del fatto che la conduttrice continuava ad occupare il capannone e a svolgervi, legittimamente, le sue attività commerciali, mancando dunque “del tutto il requisito della proporzionalità tra i pretesi contrapposti inadempimenti” (v. sentenza impugnata, pagg. 5-6).
7.2. Discende da tali considerazioni anche la palese infondatezza della contestuale censura svolta sul piano dell’osservanza dei doveri imposti al decidente ex art. 132 c.p.c., n. 4.
La sentenza impugnata spiega, infatti, adeguatamente la ragione per cui dalla
menzionata nota del Comando dei VV.FF. non si ricava l’indicazione della necessità di adeguamenti strutturali o dell’impianto nè il divieto della prosecuzione dell’attività in attesa di esso, sicchè nessuna insanabile contraddizione può predicarsi tra il riferimento a quella nota (nella parte in cui, secondo la lettura datane dalla Corte, essa si limitava a richiedere l’adeguamento del CPI) e l’affermazione che, quanto alla sussistenza delle condizioni per la prosecuzione dell’attività cui era destinato l’immobile per contratto, non era ravvisabile un inadempimento della parte locatrice, tantomeno idonea a giustificare la sospensione del pagamento del canone o la risoluzione del contratto.
8. Venendo quindi all’esame del terzo motivo, di rilievo a sua volta preliminare rispetto al secondo, se ne deve rilevare l’infondatezza.
La regola di giudizio applicata dal giudice a quo, con riferimento alla questione posta (circa la risarcibilità del danno rappresentato dai canoni non riscossi dopo lo scioglimento del rapporto fino alla rilocazione nonchè dall’eventuale differenza tra il canone originariamente pattuito e quello della nuova locazione), al contrario di quanto dedotto dalla ricorrente, appare invero conforme all’orientamento giurisprudenziale prevalente e, comunque, più convincente.
8.1. Converrà in premessa ricordare come l’art. 1611 codice del 1865, ricondotto dalla prevalente dottrina del tempo al più generale principio della risarcibilità del danno da risoluzione per inadempimento, disciplinava specificamente la questione disponendo che “nel caso di risoluzione del contratto per colpa dell’inquilino, questi è obbligato a pagare la pigione pel tempo necessario ad una nuova locazione, ed a risarcire i danni che fossero derivati dall’abuso della cosa locata”.
Il c.c. del 1942 non ha riprodotto la disposizione ricordata, nè la Relazione ministeriale di ciò dà spiegazione.
Si può al riguardo concordare con l’opinione dottrinale secondo cui la norma contenuta nell’art. 1611 c.c. del 1865 sia stata ritenuta superflua nel nuovo contesto normativo del codice del 1942, potendo quella questione essere risolta in applicazione del principio generale di cui all’art. 1453 c.c., con il contemperamento (ignoto al previgente codice) offerto dall’art. 1227 c.c. (in particolare dal comma 2, con la previsione per cui il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza).
Attesa comunque l’assenza, nel codice civile vigente, di una norma specifica volta all’individuazione dei danni risarcibili in caso di risoluzione della locazione per inadempimento del conduttore, occorre richiamare le regole generali in tema di risoluzione e segnatamente l’art. 1453 c.c..
Secondo il chiaro tenore letterale di tale norma, l’obbligo di risarcire il danno si pone quale rimedio ulteriore sia alla manutenzione che alla risoluzione del contratto.
Ciò consente di affermare che, nella specie, la quaestio iuris da risolvere non può considerarsi scriminata dal fatto che la locatrice, ossia la parte non inadempiente che reclama i danni per l’inadempimento della conduttrice da anticipato rilascio, abbia tale domanda avanzato senza previamente richiedere la risoluzione del
contratto, a tale pronuncia non avendo interesse una volta che aveva già ottenuto (e accettato) il rilascio dell’immobile anteriormente alla scadenza del contratto.
Ancora in via di prima approssimazione può dirsi che la questione riflette quella che, in via più generale, si pone in ordine alla parametrazione funzionale della pretesa risarcitoria da inadempimento contrattuale: la questione, cioè, se l’art. 1453 c.c., comma 1, attribuisca alla parte che subisce l’inadempimento il diritto al risarcimento del danno conseguente alla lesione dell’interesse contrattuale positivo (o interesse all’adempimento) o all’opposto un ristoro corrispondente all’interesse contrattuale negativo.
8.2. Venendo quindi alle soluzioni proposte dalla giurisprudenza di questa Corte, con riferimento alla specifica questione in esame, è agevole osservare che gli orientamenti che si delineano si caratterizzano essenzialmente per l’adesione all’una o all’altra di detta impostazione di fondo.
8.2.1. Il primo e, a quanto risulta, ancora maggioritario orientamento si muove chiaramente nella prima direzione (risarcibilità dell’interesse positivo) riconoscendo al locatore non inadempiente il diritto di pretendere quanto avrebbe potuto conseguire se le obbligazioni fossero state adempiute, detratto l’utile ricavato)o che, con l’uso della normale diligenza, avrebbe potuto ricavare dall’immobile nel periodo intercorso tra la risoluzione prematura ed il termine convenzionale del rapporto inadempiuto (Cass. 08/10/1970, n. 1880; 26/01/1980, n. 676; 03/09/2007, n. 18510; 24/04/2008, n. 10677; 12/02/2015, n. 2865; pare affermare, seppur implicitamente, la risarcibilità dell’interesse positivo anche Cass. 17/10/2002, n. 14744).
In particolare, Cass. n. 2865 del 2015 osserva come “sostenere che, ove la parte non inadempiente di un contratto di durata, in luogo di chiedere la condanna dell’altra parte all’adempimento, preferisca troncare il rapporto non ritenendo più di poter fare affidamento in ordine alla capacità e volontà della controparte di proseguire il rapporto adempiendo regolarmente alle proprie obbligazioni, e chieda pertanto la risoluzione, assuma il rischio del mancato guadagno, significa non individuare o negare la funzione restitutoria del risarcimento per equivalente, che nel caso della risoluzione contrattuale accompagna lo scioglimento del rapporto contrattuale qualora esso da solo non sia sufficiente a mettere la parte non inadempiente nella stessa situazione in cui essa si sarebbe trovata in mancanza dell’inadempimento della controparte.
“Al contrario, si osserva che l’art. 1453 c.c., facendo salvo, in ogni caso, il diritto della parte adempiente, che chiede la risoluzione del contratto per inadempimento della controparte, al risarcimento dei danni, ricomprende, tra i danni risarcibili, anche il mancato guadagno, se e in quanto esso costituisca conseguenza immediata e diretta, ex art. 1223 c.c., dell’evento risolutivo. Tale pregiudizio si può individuare nell’incremento patrimoniale netto che la parte non inadempiente avrebbe conseguito mediante la realizzazione del contratto e che non ha potuto conseguire per la inadempienza dell’altra parte.
“Si tratta di un danno potenziale e futuro, la cui concreta risarcibilità postula l’effettività della lesione dell’interesse del creditore all’esecuzione del contratto; il che comporta – con specifico riferimento a fattispecie… della risoluzione della locazione
per inadempimento dell’obbligazione di pagamento dei canoni da parte del conduttore – che la mancata percezione di un canone mensile, nel periodo successivo al rilascio per effetto della pronuncia risolutiva, sia dipesa da causa diversa dalla volontà del locatore di non locare nuovamente l’immobile riservandosene la disponibilità materiale”.
Soggiunge quindi la Corte, nel citato arresto, che “costituisce… indagine di merito, da farsi caso per caso e non sindacabile se non sotto il profilo del vizio di motivazione, la verifica nel caso concreto dell’ammontare del danno effettivamente subito dal locatore, per accertare se esso sia pari… ai canoni non percepiti fino al reperimento di un nuovo conduttore e poi, da quel momento e fino alla scadenza naturale del contratto risolto, pari alla differenza tra i due canoni, se esistente.
“All’interno di tale indagine potrà poi trovare spazio l’accertamento se il ritardo nel trovare un nuovo conduttore o il reperimento di esso ma a condizioni contrattuali a lui meno favorevoli sia in tutto o in parte addebitabile all’inerzia o ad altro atteggiamento del locatore (ad esempio una esasperata selettività nel vagliare gli aspiranti conduttori) che possa ritenersi in contrasto con l’art. 1227 c.c., comma 2”.
8.2.2. In linea con tale orientamento si pone, almeno nelle premesse, l’arresto di Cass. 14/01/2014, n. 530, il quale però se ne distingue per l’applicazione di un criterio limitativo del danno risarcibile (da lesione dell’interesse contrattuale positivo): criterio assai vicino alla soluzione accolta nella vigenza del codice abrogato. Secondo tale pronuncia, infatti, il danno risarcibile al locatore a titolo di lucro cessante “è rappresentato dalla mancata percezione di un introito mensile per tutto il tempo presumibilmente necessario per poterlo nuovamente locare, in relazione al quale un obiettivo parametro di riferimento può essere utilmente individuato, salvo prova diversa, nel periodo di preavviso previsto per il recesso del conduttore”.
In questa prospettiva si osserva ancora nel citato arresto che -“in applicazione del principio generale che onera la parte creditrice della specifica dimostrazione dell’esistenza del danno – deve ritenersi che gravi sul locatore l’onere della prova di avere inutilmente tentato di locare l’immobile ovvero della sussistenza di altre analoghe situazioni pregiudizievoli (come ad es. il reperimento di offerte di locazione meno vantaggiose), dando conto dei concreti propositi di utilizzazione dell’immobile, atteso che la relativa dimostrazione, anche in ragione del criterio di vicinanza della prova, non può far carico al conduttore”.
L’art. 1227 c.c., comma 2, non troverebbe dunque, in tale indagine, un’applicazione diretta, ma avrebbe “un valore meramente descrittivo del criterio da seguire nell’apprezzamento della condotta delle parti, in coerenza con la clausola generale di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. che presiede la materia delle obbligazioni” e risulterebbe anzi assorbito “dal rilievo dell’inesistenza dello stesso danno risarcibile per il mero fatto della mancata locazione, atteso che tale circostanza – in difetto di prova, necessariamente incombente alla parte istante, in ordine alle determinazioni assunte circa l’utilizzo dell’immobile – non può automaticamente ascriversi all’evento risolutivo imputato al conduttore”.
8.2.3. Prende, invece, apertamente le distanze dal primo orientamento l’arresto di Cass. 10/12/2013, n. 27614 (cui da ultimo ha pienamente aderito Cass. 20/01/2017,
n. 1426) secondo cui, a prescindere da qualsiasi considerazione di ordine probatorio, già in astratto deve escludersi che, avvenuta la risoluzione per inadempimento del conduttore a seguito del rilascio del bene, il locatore possa lamentare un danno per la mancata percezione dei canoni locativi che sarebbero stati esigibili fino alla scadenza del contratto oppure fino alla rilocazione.
Tale pronuncia nega in via generale ed astratta che siffatta pretesa possa avere fondamento perchè, per un verso, la mancata percezione dei canoni pattuiti non costituirebbe una perdita, dato che essi non avrebbero comunque mai fatto parte del patrimonio del locatore a causa dell’intervenuta risoluzione; mentre per altro verso la mancata percezione dei canoni non potrebbe esser configurata nemmeno come mancato guadagno poichè con il rilascio dell’immobile il locatore ha comunque potuto godere del bene disponendone materialmente.
Muovendo dalla premessa che il canone locativo costituisce il corrispettivo della privazione della facoltà di godimento, detto precedente ne fa derivare che,se il locatore, in seguito alla risoluzione del contratto, è ritornato nella disponibilità materiale del bene, ripristinando il godimento, non può pretendere la corresponsione del canone.
8.2.4. Non è conferente l’altro precedente, citato in ricorso, di Cass. n. 1998 del 2016, che riguarda il danno da ritardata consegna dell’immobile locato alla cessazione del contratto ex art. 1591 c.c. (in motivazione si fa incidentale riferimento alla questione qui in esame, ma solo per evidenziarne la diversità, e la si indica peraltro risolta nel senso affermato da Cass. n. 2865 del 2015 e da Cass. n. 10677 del 2008).
Nemmeno giova alla tesi della ricorrente l’altro precedente richiamato in ricorso di Cass. n. 6547 del 2016, atteso che anche esso fa esplicito rimando al principio affermato da Cass. n. 2865 del 2015 e n. 10677 del 2008, finendo in concreto col disattendere il motivo di ricorso della locatrice che lamentava una erronea riduzione del risarcimento del danno da lucro cessante per ragioni del tutto coerenti con quel principio (ossia l’accertamento contenuto nella sentenza d’appello, e non fatto segno di specifica censura, dell’esistenza di una condotta colpevolmente inerte della locatrice nel provvedere ad un nuovo impiego locativo del bene).
E’ pur vero che Cass. n. 6547 del 2016 cita anche, in motivazione, l’arresto di Cass. n. 27614 del 2013, ma la citazione si riferisce al diverso caso dell’inadempimento della obbligazione del conduttore di restituire la cosa locata “nello stato medesimo in cui l’ha ricevuta” ex art. 1590 c.c., comma 1, e non è dunque tale da attribuire alla decisione, sulla questione che qui interessa, una ratio decidendi diversa da quella testè riferita.
8.3. Reputa questo Collegio che il primo degli esposti orientamenti sia da considerarsi preferibile per maggiore coerenza sistematica.
Tale orientamento, infatti, nel riconoscere la risarcibilità del pregiudizio pari all’incremento patrimoniale netto che la parte non inadempiente avrebbe conseguito mediante la realizzazione del contratto e che non ha potuto conseguire per l’inadempienza dell’altra parte, è certamente più coerente con l’impostazione, che in linea generale appare da preferirsi, che correla il risarcimento del danno da
inadempimento all’interesse contrattuale positivo.
Se si guarda a tale interesse il danno da risarcire non può non ritenersi rappresentato dall’ammontare dei canoni dovuti per la durata ulteriore della locazione ormai sciolta per inadempimento, senza che si possa prendere in considerazione la ripresa disponibilità della cosa, perchè questa, finchè non viene locata di nuovo, per il soggetto che aveva scelto di ricavare dal bene un reddito locatizio, non può rappresentare – o quanto meno non può a priori presumersi rappresenti – un effettivo e reale vantaggio a quello paragonabile.
In tal senso non può condividersi l’affermazione che sta alla base dell’orientamento opposto, secondo la quale la riottenuta disponibilità del bene da parte del locatore può tenere luogo della sua utilità nella sfera giuridica del locatore, per essere questi libero di locare, abitare o anche trascurare il bene che gli sia stato riconsegnato anticipatamente rispetto alla data di fine della locazione previsto nel contratto. L’equazione così operata non è convincente perchè, se è vero che è nella libertà del proprietario dell’immobile scegliere se godere direttamente o indirettamente del bene, oppure non utilizzarlo in alcun modo, non è però altrettanto vero che tali scelte siano realizzabili, e abbiano lo stesso valore economico, a prescindere dalle condizioni personali e di mercato, sul solo presupposto della effettiva disponibilità del bene.
Inoltre, la scelta di goderne indirettamente attraverso la locazione, nell’ipotesi che si sta considerando, era già stata liberamente fatta dal proprietario o possessore del bene, che l’aveva preferita sia all’esercitarvi direttamente un’attività produttiva (del resto non predicabile per chi, ad es., proprietario di immobili ad uso non abitativo, nella vita svolga attività o coltivi interessi che non ne richiedano un diretto utilizzo) sia al non utilizzo, sennonchè l’utilità della scelta in concreto operata è stata poi frustrata proprio dall’inadempimento del conduttore e dalla successiva risoluzione, che ha definitivamente privato il locatore dei crediti derivanti dal rapporto di locazione ormai risoltosi.
Se il proprietario (o chi aveva comunque la disponibilità del bene) non consegue l’interesse contrattuale voluto, consistente nella percezione di un canone a fronte del godimento garantito al conduttore, si determina dunque un danno che non viene meno per la sola riacquistata disponibilità del bene.
Il locatore, infatti, continuerà a subire il pregiudizio derivante dalla risoluzione sino alla successiva rilocazione del bene a terzi oppure, in mancanza di questa, fino al termine originariamente pattuito, salva la riduzione del risarcimento nell’ipotesi e alle condizioni desumibili dall’art. 1227 c.c., comma 2.
Proprio perchè incoerente con tale previsione – la quale, come noto, secondo consolidata interpretazione comporta che sia il debitore/danneggiante a dover fornire la prova che il creditore/danneggiato avrebbe potuto evitare i danni, di cui chiede il risarcimento, usando l’ordinaria diligenza, la relativa circostanza formando oggetto di eccezione in senso stretto, come tale non rilevabile d’ufficio (v. ex multis Cass. 19/07/2018, n. 19218; 27/07/2015, n. 15750; 25/05/2010, n. 12714; 27/06/2007, n. 14853; 20/11/2001, n. 14592) – non può invece essere condivisa la soluzione offerta da Cass. n. 530 del 2014, tanto meno là dove essa propone di parametrare il
risarcimento da risoluzione al periodo di preavviso previsto per il recesso del conduttore (sei mesi).
La diversità dei presupposti e, in particolare, l’assenza di inadempimento nel caso del recesso, non consente di assimilare le due ipotesi.
8.4. Nel caso di specie non risulta nemmeno prospettata l’esistenza di possibilità di più rapido e/o più vantaggioso reimpiego del bene nel periodo in questione, sfuggite al locatore per sua colpevole inerzia.
La decisione impugnata si rivela pertanto conforme alla esposta ricostruzione del quadro giuridico di riferimento e resiste alla proposta censura.
9. Deriva dalle considerazioni appena esposte l’inammissibilità del secondo motivo di ricorso, per mancanza di interesse.
Come rilevato dalla Corte di merito2l’allegazione e poi la prova, da parte dell’appellante ITF FIN S.p.a. della stipula, con altra società, di contratto di locazione, vanno a tutto vantaggio dell’odierna ricorrente, trattandosi di circostanza che essa stessa avrebbe avuto onere e interesse di dimostrare, di guisa che non può certo dolersi del fatto che la Corte abbia vi dato ingresso nel giudizio di appello.
10. E’ infine infondato il quinto motivo di ricorso.
Nella situazione data – di rilascio anticipato dell’immobile condotto in locazione, non giustificato da alcun inadempimento della locatrice – non può certamente affermarsi che tale rilascio sia avvenuto in esecuzione di un obbligo contrattuale della conduttrice, nè correlativamente è predicabile l’esistenza di un contrapposto dovere di cooperazione della locatrice nel riceversene la consegna, rispetto ai quali possa fondatamente invocarsi la disciplina in tema di offerta formale o non formale della res.
Il rilascio (e la presa in consegna) dell’immobile rispondono, infatti, nella specie, da un lato, a una iniziativa della conduttrice non assistita nè giustificata da alcuna norma contrattuale o di legge, dall’altro, a una libera scelta della locatrice, che ben poteva rifiutare la riconsegna del bene ovvero accettarla ma con “espressa riserva” di volere egualmente conseguire i canoni maturandi fino alla scadenza contrattuale (cfr. Cass. 24/03/2004, n. 5841).
In tale contesto, pertanto, l’effetto della cessazione, de facto, del rapporto contrattuale e della conseguente liberazione della conduttrice dall’obbligo, contrattuale, del pagamento dei canoni, avente natura di debito di valuta (salvo il sorgere, subito dopo, del visto obbligo risarcitorio, avente natura di debito di valore, ancorchè parametrato ai canoni in precedenza dovuti), non può che collocarsi nel momento in cui effettivamente la disponibilità dell’immobile sia, per effetto della presa in consegna da parte della locatrice, effettivamente passata in capo a quest’ultima, senza che tale liberazione possa retrodatarsi al momento della precedente offerta della conduttrice, ancorchè effettuata nel rispetto delle forme di cui all’art. 1216 c.c..
11. Per le considerazioni che precedono il ricorso deve essere in definitiva rigettato.
Avuto riguardo tuttavia alla correzione della motivazione resasi necessaria in relazione alle doglianze svolte con il primo motivo e considerata altresì l’oscillazione giurisprudenziale registratasi con riferimento alla questione posta con il terzo motivo, si ravvisano i presupposti per l’integrale compensazione delle spese.
Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
P.Q.M.
rigetta il ricorso. Compensa integralmente le spese processuali.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, il 7 febbraio 2020. Depositato in Cancelleria il 5 maggio 2020